Vita Chiesa

Don Fulvio, il prete eremita di Garfagnana: “Conta ciò che siamo, non essere efficienti”

Non per «esotica» esperienza spirituale, ma per un bisogno interiore spesso andiamo alla ricerca di spazi di quiete per un riposo dello spirito. La Garfagnana è disseminata di eremi, che da secoli sono custoditi da uomini di preghiera. La Settimana Santa e la Pasqua sono tempi propizi per rivolgere il pensiero a questi luoghi dello spirito. Recentemente l’arcivescovo di Lucca mons. Paolo Giulietti ha affidato la custodia e l’animazione dell’eremo di Capraia a Sillico di Garfagnana a don Fulvio Calloni, presbitero della diocesi, riconoscendo in lui il carisma eremitico.Don Fulvio, sei passato da una vita apostolica particolarmente intensa, al servizio di grandi parrocchie, poi nella missione in Rwanda, ora nell’eremo di Capraia. Come può la preghiera essere totalizzante per la vita di un presbitero diocesano?«Mi chiedo spesso perché sono sempre più numerosi i presbiteri diocesani che fanno la scelta dell’eremo. Credo che negli ultimi decenni la vita dei preti è stata come un motore su di giri, tanto rumore, tanto consumo, tanta fatica per poi fare poca strada. Mi chiedo: perché? Forse ci sopravvalutiamo? Ci sentiamo indispensabili? Forse è per riempire un vuoto? La conseguenza perniciosa di questa iperattività è l’essere “uomini di chiesa” più che “uomini di Dio”. Si va nell’eremo per cercare la pace? No! È molto più facile la vita di parrocchia che quella di eremita. Si va nell’eremo per provare a diventare uomini di Dio e non uomini dell’azienda chiesa o parrocchia. Siamo proprio sicuri che la Chiesa di oggi abbia bisogno di quello che facciamo? Non è più importante ciò che siamo, al di là del nostro efficientismo? E poi ci si crede o no alla potenza della preghiera? O crediamo soltanto ai nostri progetti, ai nostri “piani quinquennali”? Io vivo in un eremo da sei anni e sono qui a pregare per la mia chiesa, i suoi preti, i suoi poveri, i suoi ragazzi, le sue famiglie… e lo faccio da prete! Non è questa un’azione pastorale, anzi carità vera? E poi ho una specie di parrocchia spirituale, immensa. È fatta da tutti coloro che il Signore in modo misterioso ha legato alla mia preghiera, molti di loro sono miei confratelli. Questi uomini e donne li porto sulle spalle, quando prego ci sono anche loro, quando celebro lo faccio con loro, quando recito i salmi sono lì, con me. È come se in un modo misterioso la loro salvezza sia legata anche alla mia preghiera. Non ci insegna questo il mistero della comunione dei santi?»Oggi assistiamo a una crisi del sacerdozio. Le fragilità degli uomini di chiesa sono accentuate da un certo senso di solitudine. Cosa ne pensi, anche in vista del Sinodo che papa Francesco ha richiesto per la Chiesa Italiana?«Ma che cos’è la solitudine? Una sofferenza o una virtù? Che cos’è il celibato? Un tormento che la chiesa ci impone o un dono a Dio e agli uomini? Abbiamo bisogno di chiarire! Quando ero parroco il momento migliore della settimana era quando, la domenica sera, restavo solo e potevo per un tempo adeguato stare in compagnia di me stesso e del Signore. La solitudine non è il problema, il problema è che non siamo più capaci a stare soli con noi stessi e con Dio. Prima parlavo di vuoto, ma proviamo a riempire il nostro vuoto di Dio e di amore per i poveri. I preti normalmente non sono mai soli, sempre in mezzo alle attività e alla gente e parliamo della sofferenza della solitudine! Non è assurdo? Forse è proprio una solitudine di qualità che ci manca. Se non siamo innamorati di Dio e dei fratelli continueremo a temere la solitudine anche con cento mogli, anche con mille figli, anche in mezzo alle folle. C’è un padre del deserto che dice: “fintanto che un uomo non affermerà ‘io e Dio siamo soli al mondo’ non sarà mai felice”».Siamo giunti a Pasqua. Molte celebrazioni, tanta tradizione. Come superare il rischio di cadere in un vuoto ritualismo?«Più che il ritualismo a me fa paura l’efficientismo. Io ho tre parrocchie su queste montagne tra la Garfagnana e il Modenese, tra gli 800 e i 1500 metri di altitudine, insieme non fanno neppure settanta abitanti. Molti di loro sono pastori che vivono anche d’inverno sugli alpeggi, eremiti per forza, in condizioni molto povere, alcuni di loro sono stranieri dell’est Europa. Molti mi dicono: “ma che ci fai lassù per così poche persone? Almeno per le feste vieni nelle grandi parrocchie dove c’è tanto bisogno di preti!” Parliamo tanto di periferie esistenziali a cui volgere il nostro sguardo. Questi miei parrocchiani non lo sono forse più di altri? Ma cosa intendiamo quando diciamo che la Chiesa sceglie i poveri? Stiamo attenti perché la presunta mancanza di preti ci porta a orientare la pastorale verso gli agglomerati, i grandi numeri, una pastorale “da città” e non una pastorale per l’uomo, soprattutto per il più solo, il più povero, il meno gratificante! È chiaro che in una logica di chiesa-azienda queste persone non si possono considerare perché occuparsi di loro sembrerebbe svantaggioso, dispersivo e poco proficuo. Meglio dedicarci ai grandi numeri».Dobbiamo vivere limitati dalle restrizioni della pandemia. Le chiese soffrono per una ridotta partecipazione di fedeli. Tanti non frequentano per timore o per pigrizia, preferendo le celebrazioni virtuali dei social. Come possiamo trasformare questo tempo in un momento di grazia e di crescita spirituale?«Mi viene in mente la figura evangelica delle donne che vanno al sepolcro per imbalsamare Gesù e ritardare così il disfacimento del suo corpo, ma lo trovano vivo! Molti di noi si avvicinano alla Pasqua con quel sentimento, come se il compito della Chiesa oggi in Europa sia ritardare il più possibile il suo disfacimento e amministrare la sua fine. La pandemia sembra aver accelerato questo disfacimento forzando lo svuotamento delle chiese. Io credo invece che questo sia un momento di grazia, perché è in un momento di crisi come questa che possiamo recuperare la nostra identità di credenti e manifestarla al mondo. Siamo rimasti un “piccolo resto”, non contiamo più, non abbiamo più voce in capitolo nella società umana che ci guarda non con odio ma peggio, con indifferenza. Ebbene tutto questo non è profondamente evangelico? Ringraziamo Dio che ci fa recuperare questa autenticità. Forse sta nascendo per la chiesa in Europa una nuova stupenda stagione».Quali auguri faresti per questa Pasqua, così insolita e provata?«Auguro di comprendere l’amore di Dio che non abbandona la sua Chiesa, ne cambia semplicemente gli scenari. Allora quello che sembra il “rantolo della Chiesa” ci apparirà come un “vagito”, perché Dio è il Dio della vita non della morte. Buona Pasqua».