Vita Chiesa

Ecumenismo, Ablondi risponde al pastore Langeneck

All’origine del dibattito una domanda: «Chi decide chi può chiamarsi Chiesa?»«Fino a quando dovremo sopportare le dichiarazioni del Vaticano, secondo cui l’unica Chiesa vera è quella cattolica romana e tutte le altre confessioni cristiane non sono veramente Chiesa?» Inizia così la lettera aperta che il pastore valdese di Livorno, Klaus Langeneck, ha inviato lo scorso luglio. Una lettera molto franca, in cui il pastore Langeneck si chiede a chi spetti il compito di decidere quali sono gli attributi necessari perché una Chiesa possa essere definita tale. «Chi ha dato – scrive – al capo dela Chiesa cattolica romana il potere di giudicare le altre chiese?» E come è possibile, prosegue, fare ecumenismo «senza partire dal riconoscimento della pari dignità dell’interlocutore?» Langeneck si rivolge quindi ai cattolici livornesi per sollecitare un confronto su questi punti, ricordando gli importanti passi in avanti fatti in questa città nel dialogo ecumenico: Livorno, sottolinea, «grazie anche al lungo episcopato di monsignor Ablondi», è diventata «un luogo importante del dialogo della Chiesa cattolica con le altre confessioni cristiane in Italia».

La lettera, cui il quotidiano livornese «Il Tirreno» ha dato spazio nelle pagine locali, ha suscitato un ampio dibattito: sul tema sono intervenuti esponenti del Sae (Segretariato per le attività ecumeniche), dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, della scuola diocesana di teologia, del Cedomei. Tra le altre risposte, particolarmente significativa è quella del vescovo emerito di Livorno Alberto Ablondi, che riportiamo integralmente in questa pagina. Una lettera che il pastore Langeneck ha accolto con gioia come segno, pur nella differenza di posizioni, di affetto e stima. «Non ho nessuna intenzione – ha affermato Langeneck – di ritirarmi dal dialogo ecumenico: la mia lettera voleva essere una provocazione, un contributo alla ricerca della verità ecumenica, e sono soddisfatto delle reazioni che ha provocato e che sta provocando». Questo dibattito potrebbe presto dare origine anche a un momento pubblico di confronto, mentre gli interventi più significativi potrebbero essere raccolti in un volumetto.

Caro pastore, dialoghiamo nella verità e nella carità

di Alberto AblondiVescovo emerito di Livorno Caro Pastore, La sua accorata lettera chiede non solo l’accoglienza di un documento ricco di valori teologici e di esperienze pastorali; ma merita anche l’attenzione scrupolosa al contesto in cui è nata e al suo delicato futuro. Essa è importante per lo sviluppo e la continuità del dialogo in atto tra le chiese; perché tenendo conto del cammino ecumenico, giunge alle comunità come stimolo a perseverare nell’ecumenismo in un momento nel quale le difficoltà possono essere tentazione di trasformarsi in soste scoraggianti.

La preoccupazione di rispettare il contesto eviterà che un documento si fossilizzi nel passato perdendo la sua attualità. Scusi caro pastore, questo potrebbe essere l’atteggiamento a cui ci costringe l’attuale visuale del Papa Benedetto XVI, se si tiene conto di episodi che appartengono al suo passato pastorale.

Sempre con l’attenzione al delicato contesto debbo riconoscere nella sua lettera il merito di provocare la vitalità dell’ecumenismo che già dalle sue origini, due secoli or sono, attribuiva al movimento ecumenico la possibilità e la capacità di evangelizzazione in tutte le chiese.

Sono così convinto del rapporto fra unità e verità che anche a questa lettera voglio dare una veste semplice e didattica, proprio per non lasciare in ombra il contesto popolare dei nostri fedeli; con la triste conseguenza di fare dell’ecumenismo un dialogo di elite che non raggiunge l’attenzione popolare.

Nella verità verso la verità Con questo spirito, rileggendo con lei alcuni brani della sua lettera, sento che è necessario approfondire e precisare il modo con cui un cattolico si rapporta con la verità.

Anzitutto lei pastore si domanda: «chi ha dato al capo della Chiesa Cattolica Romana il potere di giudicare le altre chiese?» Davanti a questa provocazione sento il dovere di riflettere sul modo con cui un cattolico si rapporta con la verità.

Un uomo, ma mi sentirei di dire un cristiano, deve sempre assumersi la responsabilità di un cammino nella verità e verso la verità. Il primo passo consiste nel «cercare», perché la verità qualunque essa sia presenta sempre nuove dimensioni. Non solo la verità cercata dovrà essere «accolta», nella condivisione con la comunità, ma questa accoglienza deve sempre essere soggetta ad una «verifica» che la riveli non in contrasto o contraddizione con i valori che la mia comunità professa.

A questo punto i responsabili della comunità ma anche ogni singolo membro dovranno proclamare la verità proposta e acquisita affermando la validità di alcuni valori e la conseguente esclusione di affermazioni in contrasto. Non è dunque la mia autorità, come lei dice, «a decidere quali debbano essere gli attributi della chiesa».

Non si tratta dunque di un potere decisionale ma di un atto di proclamazione della fede che affermando alcuni valori esclude quelli ad essi contrari. Così quando i valdesi rifiutano il valore del sacramento dell’Ordine non compiono un atto di ingerenza nella mia chiesa ma piuttosto esprimono un’affermazione cui hanno diritto anche se questo viene a toccare una importante verità cattolica. Si potrebbe dunque dire la stessa cosa delle affermazioni cattoliche sulla pienezza o meno di essere chiesa. È evidente infatti che come cattolico non posso affermare in assoluto la completezza di una chiesa che io non accetto proprio perché carente di aspetti che ritengo fondamentali.

Dirò allora che non è la Chiesa Cattolica Romana a disistimare le altre confessioni. Infatti proprio per evitare confusione introdurrà nel suo linguaggio ecclesiale dal suo punto di vista, la distinzione tra «Chiesa» e «Ecclesialità». Lo scopo è di far capire che la chiesa non può ritenere certe affermazioni o esclusioni solo accentuazioni teologiche incompatibili coi valori fondamentali. Non mi pare proprio, come lei afferma, che la Chiesa Cattolica Romana con questo atteggiamento porti in se rigurgiti di altri tempi, che lei pesantemente definisce «integralismo settario e antiecumenico». Direi piuttosto che si tratta di quella ricerca di verità che non permette la sottovalutazione o equivoco.

Al passo di dialogo A questo punto, forte del suo patrimonio di verità, la chiesa non può limitarsi alle solenni definizioni dottrinali o a condannare gli errori. Una chiesa che si ferma a la pubblicazione di condanne e decreti, commetterebbe lo stesso errore di chi all’inizio del protestantesimo, ignorando l’atteggiamento di dialogo, inchiodava la tesi della riforma alla porta della chiesa di Wittemberg. Perché solo con questo atteggiamento di dialogo la chiesa dopo le dichiarazioni può affrontare il rapporto costruttivo con le altre chiese, con un atteggiamento di dialogo che non può essere facoltativo ma necessario. Direi di più, la chiesa ha il dovere di vivere il dialogo in ogni sua dimensione, personale e comunitaria; ed i laici dovrebbero richiederlo ai loro pastori come testimonianza di carità.

Cammino faticoso questo perché chi vuol dialogare deve avere sempre il coraggio di continuare nonostante gli insuccessi. Inoltre non deve mancare la consapevolezza che nel dialogo le due parti devono essere disposte a cambiare qualcosa. Ma la carità ecclesiale deve farsi consapevole che l’incontro nel dialogo diventerà più facile quando le due parti guarderanno non solo al futuro, ma si sentiranno sospinte e sostenute da un passato che è già comune a tutte le chiese nella loro partecipazione, anche se incompleta, alla vitalità della Chiesa Universale.

Mi piace pensare che queste proposte di dialogo sono sostenute e illuminate dalla lettera di Giovanni in cui si dice: «Misericordia e pace siano con noi da parte di Dio Padre, da parte di Gesù Cristo figlio di Dio nella verità e nell’amore» (Giov. 2. 1).

Questa coniugazione di «verità» e «carità» è un appello che attraverso i secoli, raggiunge l’insegnamento di Giovanni Paolo II che nell’enciclica Ut unum sint afferma: «Il dialogo ecumenico stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi e capirsi, a spiegarsi reciprocamente e permette così inattese scoperte».

Illuminati da questa vocazione di unità e carità i cristiani dovrebbero farsi consapevoli che l’ecumenismo chiede anzitutto di amare il fratello di altra confessione. E qui, caro pastore, mi permetta di tradurre questa raccomandazione in un piccolo sfogo personale: tra noi c’è rapporto di stima e di affetto, ma dopo tanti anni non possiamo ancora dirci «amici». Non saremo anche noi condizionati da un passato per un futuro che vorremmo diverso?

Purtroppo circostanze diverse possono dar maggiore risalto ai peccati e alle povertà dell’altro. Invece di aggiungere un arricchimento vicendevole attraverso i nostri limiti. Ma un’altra convinzione non possiamo dimenticare, perché dovrebbe essere la base delle nostre prospettive di dialogo, quando fossimo convinti che «chiese» e «comunità», appartengono alla «Chiesa Cattolica». Un legame che supera ogni divisione, tanto fecondo se ogni chiesa sentisse come propri ricchezza e povertà, problemi e difficoltà dell’altra.

È evidente che queste grandi linee del rapporto ecumenico chiedono di non essere sciupate dalla ripetizione monotona di accuse vicendevoli che spengono l’entusiasmo e deformano la storia nel loro anacronismo. Questa lettura discorde della Sua lettera spero non si riduca ad un dialogo tra sordi; e tanto meno costituisca motivo per confinarci entrambi nel «Medioevo». Purtroppo la grande diversità e tante lontananze nascono da una visione asimmetrica con cui guarda la «chiesa cattolica» e la «comunità valdese». Verso un futuro diverso Davvero «chiesa» e «comunità ecclesiali» sono espressioni faticose perché riassumono tutte le fratture passate e presenti. Accetto di pronunciarle con fatica quasi piangendo. E credo che persino il Papa dovrebbe piangere di sofferenza ecclesiale che ravviva le nuove separazioni e antiche separazioni. Oserei dire però che si tratta di una sofferenza liberante perché denuncia di fronte a tutte le chiese l’indifferenza e l’insufficienza del passato ecumenico.

Questo passaggio dalla indifferenza alla insufficienza mi fa scoprire ancora una volta che ognuno di noi è povero della assenza dell’altro.

Sono questi gli autentici sintomi di un Medioevo che tutti dobbiamo superare, nella speranza laboriosa di un Dio che sa sempre ricominciare.