Vita Chiesa

Il lavoro nei cinque ambiti

Lavoro e festa, affettività, fragilità, tradizione e cittadinanza: su questi cinque ambiti si sono confrontati nei gruppi di lavoro i delegati presenti a Verona. Ogni ambito è stato introdotto da una relazione, di cui riportiamo una sintesi.

LAVORO E FESTA. “Il modo in cui ci rapportiamo al mondo attraverso il lavoro è soggetto a radicale trasformazione e anche la festa è trasformata in puro momento d’ozio, spesso vuoto e carico di noia”: con queste parole ADRIANO FABRIS, docente di filosofia morale e direttore del master in comunicazione all’Università di Pisa, ha introdotto la relazione per l’ambito del “lavoro e festa”. In questa situazione, ha detto ancora, “viene meno la relazione tra lavoro e festa come modo in cui l’uomo può vivere il tempo, può volgersi al mondo, può rapportarsi agli altri uomini, può aprirsi a Dio”. Il lavoro, che si va facendo sempre più precario, instabile, “flessibile”, non presenta solo aspetti negativi. “Flessibilità – ha aggiunto – significa anche possibilità di cogliere nuove opportunità lavorative. In quanto tale non è sinonimo di insicurezza. Il lavoro che manca, oggi, non è semplicemente lavoro negato. E come tale non è solamente segno di una mancanza di futuro, che porta inevitabilmente alla disperazione”. Però ha poi aggiunto che se il lavoro manca per davvero, viene “messo in discussione il senso stesso della nostra vita”. “I cristiani sono coloro che sanno vivere la festa e sono capaci di rapportarsi al creato, di contemplarlo e di goderlo come se esso tutto fosse una festa e un’occasione di festa”, ha aggiunto Fabris. “La festa – ha ricordato – non è qualcosa che si consuma. Invece la festa è tempo per… per rigenerare il proprio spirito e anche il proprio corpo”. Lo stesso “precetto di santificare la festa” va inteso – secondo Fabris – “come un invito a ricordare che il tempo non è tutto omogeneo, tutto uguale, e che c’è un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione”. Ha così messo in guardia dal “fare del lavoro una religione” e ha invitato i credenti a “insegnare il senso del tempo e il senso della festa”.

AFFETTIVITÀ. La vita affettiva come “banco di prova per una testimonianza credibile della speranza cristiana”. Così RAFFAELLA IAFRATE, professore associato di Psicologia dei gruppi e di comunità all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha introdotto il lavoro nell’ambito dell’affettività. In realtà, ha osservato Iafrate, oggi, le esperienze affettive sono “sempre più vissute come pura passività incontrollabile dalla libera volontà, come esperienza esauribile nell’hic et nunc, come realtà dell’io individuale”. In altre parole si vive “un’affettività senza speranza”. In evidenza “c’è una concezione di uomo che nel campo affettivo tende sempre più a diventare ‘ciò che si sente, frutto di una separazione tra corpo e mente”. La vita affettiva “paga così lo scotto di questa dissipazione antropologica” e “affetto e amore sono spesso confusi con emozione, sentimento, soddisfazione effimera”, mentre veramente degno dell’uomo, ha detto Iafrate, è un amore “espressione della persona nella sua interezza, ossia nell’essere umano come essere individuale e sociale, dotato di istinto e di ragione, di passione e responsabilità”. In realtà, un’autentica vita affettiva, come esperienza profondamente rispettosa dell’umano, “non può che essere un’esperienza di relazione, congiunta ad una dimensione etica”. Per Iafrate, “una delle frontiere più esposte alla deriva emozionalistica ed individualistica degli affetti” e nella quale è più urgente testimoniare “la novità della speranza cristiana” è la famiglia, specie quella fondata sul sacramento del matrimonio, che per il cristiano “è il luogo per eccellenza degli affetti e della stringente responsabilità”. Soprattutto, ha osservato Iafrate, in una società come la nostra “ripiegata sull’immediato”, la testimonianza della vita familiare dei credenti “può ancora veramente rappresentare un’anticipazione della speranza incorruttibile”, capace di “curare le malattie della speranza” del nostro tempo. Occorre, perciò, “riaffermare l’identità della famiglia rifiutando l’edonismo molto diffuso che banalizza le relazioni umane e le svuota del suo genuino valore e della sua bellezza: promuovere i valori del matrimonio non ostacola la gioia piena che l’uomo e la donna trovano nel loro mutuo amore”. “Essere testimoni di speranza nella vita affettiva e familiare” è, dunque, ha concluso Iafrate, “accettare il rischio di dare fiducia all’altro, nello scorrere delle transizioni che mettono alla prova i legami” e “lanciare una sfida al non senso a cui sono ridotte oggi le relazioni umane”.

FRAGILITÀ. La fragilità va vissuta come “dono”: “Potrà non toccare a noi la risposta necessaria quando si incontra qualcuno sofferente ma tocca a noi l’ascolto, la vicinanza ma anche l’offrire speranza a chi la chiede”. Lo ha detto AUGUSTO SABATINI, presidente vicario del tribunale dei Minori di Reggio Calabria introducendo l’ambito della “fragilità”. Per Sabatini “la fragilità è qualcosa che di per se non si caratterizza né come problema né come risorsa” ma come uno stato o “un limite della materia e degli organismi viventi”. “Gli uomini soffrono, si ammalano, muoiono: per molti anni della propria vita – ha detto Sabatini – l’esistenza di tanti è una scommessa, esposta a rilevanti precarietà, senza sicurezze di benessere e di sopravvivenza. Molti lottano per la sopravvivenza ma anche i ricchi hanno perso la speranza nel futuro”. La fragilità è quindi “una delle grandi aree dell’esperienza personale e sociale” verso cui sono “chiamati i cristiani, sia singolarmente che come comunità”. La fragilità – ha aggiunto – va quindi vista come “risorsa” che richiede “la testimonianza” dei cristiani affinché agiscano “con rinnovato alimento e maggiore efficacia, con coraggio e fedele perseveranza ma soprattutto con profonda e sincera umiltà”.

TRADIZIONE. “Come può l’uomo del nostro tempo, più di duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una ‘certezza ragionevole’ su questo avvenimento”, e “come è possibile verificare che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo, e riaccada ora, nel presente?”. Sono gli interrogativi posti da COSTANTINO ESPOSITO, ordinario di storia della filosofia all’Università di Bari, che ha introdotto i lavori sull’ambito della tradizione. Domande decisive non solo per quanti sono impegnati nell’esperienza della Chiesa, ma “per tutti coloro che fossero impegnati seriamente con il proprio problema umano”, perché in questi interrogativi trova spazio l’attesa profonda che c’è nel cuore di ogni uomo: “quella di incontrare qualcuno che possa corrispondere al desiderio di felicità che caratterizza in maniera insopprimibile la vita di ciascuno di noi”. E a questa attesa, ha più volte ricordato Esposito, “non può rispondere un discorso o una strategia, ma solo una vita”. Perciò la tradizione non va confinata in un “glorioso passato e neppure in una costante attesa di qualcosa che si deve aggiornare di continuo. La tradizione è qualcosa che ci è stato donato, è vita, e solo perché si è ricevuto qualcosa di grande e di bello che si può sperare in un futuro di realizzazione e di compimento di sé”. Per il filosofo occorre “che chi riceve o eredita la tradizione possa verificarla, mettendola alla prova nella sua capacità di corrispondere o meno alle esigenze della ragione e del cuore”. Se la tradizione segna il campo di un rapporto vivente, è nella liturgia che il cristiano trova un modo per reimparare sempre la tradizione: “la liturgia non è il ricordo, ma la memoria”. Tre, infine, gli spunti da tener presente per vivere la tradizione oggi: “la catechesi, lavoro quotidiano di ripresa della ragione della fede; l’attenzione agli ambiti formativi della scuola e dell’università; la comunicazione”.

CITTADINANZA. Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono “i primi, ma non gli unici responsabili, di una intollerabile situazione di deficit civile” in Italia e “sarebbe davvero incredibile che in un convegno ecclesiale come il nostro, venissero dimenticate parole come quelle di Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento, o testimonianze come quelle offerte da don Puglisi. Credo si debba farle del tutto nostre con coraggio e intelligenza”. Ad affermarlo il sociologo LUCA DIOTALLEVI introducendo i lavori sulla “cittadinanza”. “In questi contesti quale è la qualità civile della testimonianza cristiana? Quanto seria ed intensa è la denuncia? Sono attive forme di collusione?” sono state le domande poste dal sociologo, che ha invitato anche a discernere sullo stato dei “diritti politici”. “Siamo in un Paese nel quale il peso attribuito al voto popolare e lo spazio concesso all’esercizio dell’elettorato passivo scendono a gradi minimi rispetto a quelli garantiti dalle democrazie occidentali”. Non meno importante è la questione economica davanti alla quale “non ha senso parlare di estensione di cittadinanza” se poi non si presta “adeguata attenzione al fatto di trovarsi in una comunità nazionale nella quale la quasi totalità delle aree locali conosce una sostanziale stasi od addirittura una contrazione del prodotto interno lordo”. “Non si cresce se si lavora così poco ed in così pochi, come avviene in Italia. Non si cresce se si studia e si fa ricerca così poco e male come avviene in Italia”.

La comunità dei fedeli, secondo Diotallevi, è chiamata ad interrogarsi sulla qualità della propria vita ecclesiale, “su quanto le nostre comunità ecclesiali reali siano luogo di accoglienza non paternalistica di bambini ed anziani, stranieri e diversamente credenti e chiederci quanto queste Chiese reali ed i loro cristiani siano partner attivi e non occasionali di queste persone in cerca di una nuova ed adeguata cittadinanza”. “Ma se vogliamo fare un serio esame di coscienza guardando in faccia le mancanze più ricorrenti e profonde – ha proseguito il sociologo – credo che il punto da cui partire sia costituito ancora dalla condizione delle donne nelle Chiese che sono in Italia, ad un livello molto più essenziale di quello che riguarda compiti e mansioni”. Altra minaccia ravvisata da Diotallevi è la crisi di valori del modello sociale europeo riguardo alla vita, la famiglia, la parità scolastica, il declino demografico. Il sociologo ha auspicato una “rinnovata responsabilità per la città da parte dei cattolici italiani, una responsabilità che non autorizza alcun disegno egemonico, peraltro improbabile, che non cancella la possibilità del pluralismo e soprattutto è una responsabilità che ci giudica; come un talento”. Per questo, ha concluso, “non bisogna cedere alle logiche dello scandalo o dell’indulgenza, quanto piuttosto esercitare umiltà e ascesi. Non saranno infatti, ambizioni e privilegi, né alcuna forma di orgoglio religioso a mostrarci la strada e le forme migliori per l’esercizio del cristianesimo nella città e per la cittadinanza: esse somigliano troppo alla nostalgia per le cipolle d’Egitto”.