Vita Chiesa

Il vescovo Andrea Migliavacca, un giorno da volontario Caritas con i giovani di Ponsacco

Monsignor Migliavacca, per un giorno, è così diventato a tutti gli effetti un membro della pattuglia di giovani volenterosi (25 in tutto) tirata sù da zero nel marzo scorso – e in piena emergenza sanitaria – da don Armando Zappolini, parroco proprio a Ponsacco e direttore della Caritas diocesana. Incuriositi da questa storia ci siamo fatti raccontare da monsignor Migliavacca le sue impressioni.

Eccellenza, com’è nata questa giornata con i giovani di «Caritas young»?

«Molto semplicemente: ho pensato che avrebbe fatto loro piacere l’idea di poter condividere questo servizio col loro vescovo, e così sono andato a conoscerli per partecipare a una loro giornata di lavoro».

Ha lavorato fin dal primo mattino, caricando e scaricando pesanti pacchi alimentari, per poi distribuirli a chi ne aveva bisogno. Questa faccenda della «Chiesa col grembiule» le sta proprio a cuore…

«L’immagine di don Tonino Bello della “chiesa col grembiule” è sicuramente un riferimento importante per me. Don Tonino ha incarnato un orizzonte nel quale anche io mi ritrovo pienamente. Si, ho lavorato con questi ragazzi. Mi sono messo in gioco e a loro servizio. Credo che un modo per vivere il vangelo sia proprio quello di stare in mezzo alla gente nella condivisione».

Durante il lavoro indossava la mascherina d’ordinanza. Al netto della croce pettorale, la gente l’ha riconosciuta?

«Beh, gli operatori del servizio sì, mi hanno riconosciuto. Tanto ché i volontari della Misericordia, dove materialmente i pacchi sono stati consegnati, hanno voluto farmi visitare le loro strutture. Ci sono state però alcune persone a cui abbiamo consegnato i pacchi che, non frequentando il giro ecclesiale, non mi hanno in un primo momento riconosciuto».

Come hanno reagito quando hanno capito che era il vescovo in persona a fare la distribuzione?

«Beh, direi che erano sorprese e insieme contente».

La sua giornata è poi proseguita alla mensa Caritas parrocchiale…

«Esattamente. Dove ho pranzato con i giovani nel giardino della mensa. A questo proposito mi ha fatto molto piacere sapere che gli ospiti abituali di questa mensa, in queste settimane così atipiche a causa del coronavirus, hanno voluto pulire e riordinare questo giardino, riverniciando persino i giochi del parco bambini. Sono stati loro che mi hanno accolto e mostrato il lavoro che avevano fatto, e alla fine del loro pranzo si sono uniti a me e ai ragazzi per il dolce e per un brindisi augurale… brindisi fatto ovviamente a distanza di sicurezza. È stato un bel momento di condivisione».

Eccellenza, parlare e interfacciarsi con un prelato rimarca sempre un discreto imbarazzo nei fedeli. Sappiamo della sua allergia ai formalismi. Cosa fa abitualmente per mettere a loro agio le persone quando le incontra?

«Non esiste una ricetta preconfezionata. Sorrido, ascolto, cerco di parlare con empatia. Mi viene naturale».

All’inizio del suo ministero episcopale disse che desiderava un vescovado con le porte aperte e invitava tutti a venirla a trovare. Tanti episodi di questi anni confermano il fatto che non c’è stato quasi bisogno di recarle visita; è stato infatti il pastore che si è mosso in cerca del gregge. Il suo è un proposito di essere in consonanza con la «Chiesa in uscita» auspicata da Papa Francesco o è invece l’antica radice scout, dal cui mondo lei proviene, che innerva il suo episcopato e la porta a battere e aprire strade, anche le più impervie e impraticabili?

«Fa parte del mio essere e della mia esperienza stare con le persone. Non attendere che siano loro a venire da me, ma andare dove vivono. Gli scout sono un esempio paradigmatico: con loro non è sufficiente fare riunioni e incontri per conoscersi. Bisogna camminare insieme, cucinare insieme, condividere la stessa tenda. Anche adesso che sono vescovo, non mi è chiesto di guardare la diocesi dal palazzo, ma di stare con la gente, andare dove vive, nelle parrocchie, nelle famiglie, nelle fabbriche, nei luoghi del dolore. Andare insomma dove c’è bisogno del pastore».

E la quarantena del vescovo di San Miniato com’è trascorsa?

«Direi che è stato un periodo molto impegnativo. All’inizio mi chiedevo come avrei impiegato il tempo, visto che tutte le ordinarie attività in agenda venivano sospese. Poi, nella realtà, le cose da fare sono state molte: tenere i contatti per telefono con i miei preti, con le famiglie e con una pluralità di altre persone. Ci sono state poi le videoconferenze con vescovi toscani. Ho anche scritto molto: documenti, omelie, meditazioni bibliche. Ho letto un po’ più del solito e anche pregato di più. Quando è stato possibile sono riuscito anche a ritagliarmi un po’ di spazio per l’attività fisica. Da questo periodo escono anche migliorate le mie capacità culinarie. Per il resto pulizie di casa, spesa… Insomma un vita normale, una vita da vescovo in lockdown».