Vita Chiesa

Matrimoni misti: in 10 anni oltre 10 mila nelle parrocchie italiane

«La famiglia nata dai matrimoni misti costituisce una cellula ecumenica che intesse e rafforza la tela delle relazioni tra le Chiese». Con queste parole mons. Mansueto Bianchi, vescovo di Pistoia e presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, ha aperto questo pomeriggio a Roma il convegno nazionale sui matrimoni misti dove da oggi fino al 21 gennaio esperti di pastorale familiare, ecumenisti e giuristi si confronteranno sul tema «Amarsi e sposarsi nei matrimoni misti: attenzioni pastorali e canoniche». «Dal punto di vista ecumenico – ha detto mons. Bianchi – mi preme doveroso sottolineare non solo i problemi che i matrimoni misti pongono ma anche la potenzialità e l’urgenza profetica che custodiscono dentro di sé in ordine all’unità della Chiesa». Queste famiglie – ha aggiunto – rappresentano una sorta di «pressione nella coscienza della Chiesa, diventando luogo importante per il cammino ecumenico». Il tema dei matrimoni misti – ha invece scritto in un messaggio ai partecipanti mons. Enrico Solmi, vescovo di Parma e presidente della Commissione episcopale per la famiglia e la vita – «assume un rilievo sempre più significativo, sotto il profilo non solo numerico ma anche in ordine all’approccio pastorale».

La presenza sempre più numerosa di coppie che s’incamminano verso il matrimonio e in cui c’è una componente cattolica e una componente di altra confessione, religione o credo, «sollecita una maggiore conoscenza» e «una cura particolare» – dice il vescovo Solmi – affinché «queste coppie si sentano accolte non solo nei colloqui con il parroco ma da tutta l’equipe che si prende cura della loro preparazione al matrimonio e poi lungo il loro percorso familiare». Un percorso attento e volto a «valutare tutti gli aspetti», dal «pericolo dell’indifferenza» al rischio per la parte cattolica di «compromettere l’integrità della fede» fino «all’iniziazione cristiana dei figli». «Il convegno – spiega mons. Gino Battaglia, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo – è dedicato al grande tema dei matrimoni misti. Una realtà non nuova ma che negli ultimi decenni ha assunto una connotazione nuova dal punto di vista quantitativo. Una realtà ormai diffusa nelle parrocchie e nelle diocesi che pone interrogativi nuovi». È segno – aggiunge il direttore dell’Ufficio Cei – di un’Italia caratterizzata ormai da «un pluralismo sociale, etnico, culturale e religioso, terra di coabitazione tra comunità diverse e dove gli incontri si sono moltiplicati». Un Paese dove «l’ecumenismo non è più ambito per specialisti e pionieri ma pane quotidiano e dove l’incontro con l’altro è entrato nelle scuole e nelle famiglie».

La diocesi di Roma spicca per numero di licenze o dispense richieste per poter celebrare un matrimonio con un/a sposa/o di altra confessione/religione. A parte il picco della città di Roma, i matrimoni «interconfessionali», «interreligiosi» e «altri» si concentrano soprattutto nelle città del Nord e del Centro, dove risiede un maggior numero di popolazione immigrata. È quanto emerge da un’indagine presentata dalla sociologa Carmelina Chiara Canta questo pomeriggio a Roma in apertura del convegno «Amarsi e sposarsi nei matrimoni misti: attenzioni pastorali e canoniche» promosso dagli Uffici Cei per la pastorale della famiglia, per i problemi giuridici e per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.

Nel decennio preso in considerazione ad aumentare sono stati soprattutto i matrimoni interconfessionali: se prendiamo il 1999 i matrimoni interconfessionali erano il 4%, nel 2008 sono aumentati al 7%. I matrimoni interreligiosi invece rimangono stabili. Aumentano moltissimo e cioè del 50% – e questa è la novità della ricerca – i matrimoni con coniugi non battezzati o che hanno abbandonato la fede.

La maggior parte dei matrimoni interconfessionali sono con partner ortodossi e appartenenti alle Chiese antiche orientali: 3.210 pari al 50% dei matrimoni interconfessionali. Sono soprattutto le donne ortodosse a sposare uomini cattolici. Seguono poi i matrimoni con partner luterani (17%), con anglicani (11%) e con valdesi metodisti (5%).

I matrimoni interreligiosi sono nel valore totale di 839, pari all’8%. La maggior parte è con partner islamico (il 52%). Sono soprattutto donne cattoliche che sposano gli uomini musulmani, sebbene nel decennio preso in considerazione c’è stata una crescita di donne musulmane che sposano uomini cattolici. La prima nazione da cui provengono gli appartenenti alla religione islamica è l’Albania, seguita da Marocco, Tunisia e Algeria. Riguardo infine a matrimoni con altri, la maggioranza è costituita da non battezzati (sono il 65%) e dai cattolici che hanno aderito ad altre religioni (il 35%). «Nel chiederci chi sono e di quale nazionalità appartengono – commenta la sociologa Canta -, abbiamo scoperto che sono soprattutto italiani e cioè il 45% dei non battezzati è italiano e riguardo all’abbandono notorio della fede, gli italiani sono addirittura il 98%. Partita dunque come una ricerca sull’immigrazione, l’indagine ha via via coinvolto gli italiani aprendo dal punto di vista pastorale alcuni interrogativi sulle ragioni degli abbandoni della fede».

«I matrimoni misti hanno una fragilità in più in un contesto ormai debole riguardo alla stabilità delle famiglie». Per questo, una volta che in diocesi si giudica che la dispensa può essere concessa, è necessario anche a livello pastorale «accompagnare la famiglia lungo il suo cammino, con una cura speciale, viste le speciali difficoltà». A delineare l’approccio pastorale nei confronti dei matrimoni misti è José Granados, vice-preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, intervenendo questo pomeriggio a Roma al convengo nazionale della Cei dedicato proprio a questo tema. «I matrimoni misti – spiega l’esperto – sono prima di tutto matrimoni in cui s’incontrano modi diversi di mettersi davanti alla vita, con tradizioni e storie differenti». Ma quando la religione è diversa «cresce molto la distanza tra le culture, perché il rapporto con Dio è al cuore di ogni vissuto culturale e della sua capacità di trovare radici comuni».

«L’elemento religioso è pertanto il punto dove la distanza tra i due coniugi si fa sentire con più intensità». «La pratica pastorale – ha quindi sottolineato Granados – deve rendersi conto, in primo luogo, della difficoltà intrinseca ai matrimoni misti». E – aggiunge l’esperto – «le difficoltà non hanno un effetto solo sulla fede dei coniugi o sulla loro appartenenza alla Chiesa, ma anche sul loro amore e sul loro rapporto con i figli». Ma una volta concessa la dispensa, queste coppie – rileva il vice-preside dell’Istituto Giovanni Paolo II – lasciano intravedere «luci di speranza»: «Nel loro rapporto c’è una chiamata di Dio, una vocazione all’amore; essi formano in gradi diversi una chiesa domestica; possono contribuire a edificare l’intesa tra le religioni e l’unità della Chiesa».