Vita Chiesa

Padre Tarcisio, un frate toscano tra gli Indios

di Lorenzo Matteucci

Intervistare Tarcisio Ciabatti è un’impresa, è sempre pieno d’impegni. Una volta tanto che torna in Italia tutti lo reclamano. Ma quando si ha la possibilità di incontrarlo la prima impressione è di dolcezza, di apertura all’altro ma allo stesso tempo determinato ad arrivare all’obiettivo che si è preposto. Ogni tanto il cellulare squilla, spagnolo e italiano si fondono ma il racconto delle sue esperienze è minuzioso e preciso.

Frate francescano, originario della Verna, Tarcisio è andato in Bolivia nel ’76. Prima di partire per la missione, aveva lavorato, per quindici anni, fra i baraccati di Viareggio: «Pescatori, operai, disoccupati, gente che veniva dalle campagne e dalle montagne. Erano i primi anni Sessanta, il periodo del boom economico, ma le case popolari ancora non c’erano. E noi frati, fianco a fianco con i preti operai, eravamo partecipi di un grande sommovimento. Organizzavamo cineforum, scuole popolari, gruppi di scout, doposcuola per i ragazzini». A metà anni Settanta, appunto, decide di continuare la sua missione pastorale in America Latina. «Avevo una discreta preparazione di tipo infermieristico. Così approfittai della visita di un vescovo boliviano in Toscana per propormi come missionario nel Chaco». In  Bolivia c’era la dittatura di Banzer. La situazione degli indigeni oscillava tra  la  negazione dei più elementari diritti umani e civili e lo schiavismo puro e semplice, soprattutto nelle miniere e nelle piantagioni di canna da zucchero. Un popolo vinto. «In questa zona si muoveva qualcosa di positivo solo grazie ai gesuiti, ad esempio nascevano le prime cooperative di lavoro dei Guaranì a Charagua».

Quale è stata la causa da cui è scaturita la «Escuela Tekove Katu», la Scuola di salute pubblica? «Una sera, era il ’77, in cucina mi aspetta della gente di Ipitasito che mi dice: “Vieni a battezzare tre bambini che stanno morendo”. La mattina dopo mi reco in quella comunità e trovo non solo questi bambini moribondi, ma anche una decina di adulti a letto, con la febbre a quaranta. Sono sicuro della diagnosi: è morbillo. Somministro penicillina e antibiotici. Ho una gran fortuna e li salvo tutti, adulti e piccini. Dopo qualche settimana torno a Ipitasito, facciamo una riunione e  propongo ai membri della comunità di mandare qualche giovane da me a imparare le cose basilari del pronto soccorso, delle vaccinazioni,  delle malattie più comuni. Loro accettano e così ha avvio il nucleo originario della futura scuola di infermieristica».

La notizia passa di comunità in comunità. A casa di Padre Tarcisio arrivano giovani mandati anche da altre Comunità Guaranì. Ci sono dei letti per gli ammalati  e un pasto caldo per chiunque arrivi. «In tutto il Chaco non c’erano, a quel tempo, operatori sanitari, non c’era chi facesse le vaccinazioni. Il morbillo uccideva centinaia di persone ogni anno. La Escuela Tekove Katu, con il suo primo corso di infermeria, nasce come risposta naturale a questi bisogni fondamentali. In tutte le comunità del Chaco, anno dopo anno, si formavano i Comitati per la salute. Questa diventa la prima forma di autoorganizzazione dei Guaranì, che presto si estende anche ad altri temi: l’acqua, la produzione agricola, l’educazione. Perché la salute è il risultato di acqua potabile, alimentazione sufficiente e varia, abitazioni decorose, educazione. È il riassunto del bene-stare sociale. Per questa ragione non si può fare educazione sanitaria senza fare educazione alla politica». Come viene scritto nella convenzione 169 dell’Onu: «che si mettano a disposizione di popoli indigeni i mezzi necessari che permettano loro di organizzare e amministrare i servizi di salute sotto la propria responsabilità e controllo».

Passano gli anni, le diverse Comunità cominciano a riunirsi fra loro, o almeno a far riunire i loro rappresentanti. Rompono l’isolamento e cominciano a sentirsi popolo. Molti passi in avanti sono stati fatti. I responsabili dell’attività didattica e tutti gli insegnanti sono indigeni, molti ex allievi della stessa scuola. La Chiesa cattolica sostiene la nascita di una rete di organizzazioni che si occupano non solo di salute (come il Convenio de Salud nel Vicariato di Camiri, vale a dire un’organizzazione fondata di comune accordo tra lo Stato e la Chiesa cattolica) ma anche di recupero e promozione della cultura indigena, che provvede tra l’altro alla pubblicazione di libri di testo bilingue per le scuole della zona.

Chiedo come i frati sono stati accolti e come hanno fatto a conquistarsi la fiducia di quei popoli. La risposta data da padre Ciabatti è semplice ma di una verità disarmante: «camminando insieme, analizzando le situazioni insieme, come uno di loro, e cercando di dare risposte con programmi adeguati». Come mai dopo molti anni avete deciso di ritrovarvi a Firenze? «Perché vedevo l’urgenza di fare un punto della situazione dopo quel tanto che è stato fatto». «Vorrei sottolineare, conclude padre Tarcisio Ciabatti, che questo è un incontro proiettato al futuro, per questo siamo contenti che anche il Sindaco di Firenze Matteo Renzi, attraverso il Presidente del Consiglio Comunale Eugenio Giani, abbia sottolineato che il Comune sia disposto ad appoggiare questa iniziativa in futuro».

«Mbegue Mbegue»: un libro-testimonianza sui venticinque anni di collaborazione tra Toscana e Bolivia«Mbegue Mbegue…»  parole strane di una lingua indiana, quella dei Guaranì, un antichissimo popolo dell’America meridionale. Tradotte, dicono semplicemente «Piano, piano…». Venerdì 1 ottobre sono risuonate nella sala del Rettorato dell’Università di Firenze, in piazza san Marco, dove si celebrava il cammino fatto appunto «piano, piano» in 25 anni di collaborazione tra la clinica della Facoltà di malattie infettive di Firenze e il Proyecto Salud nel Chaco boliviano.

I contenuti li racconta, in maniera agile, un libro dallo stesso titolo Mbegue Mbegue, realizzato a più voci dai protagonisti, ma  la loro  ricchezza è apparsa in forma commossa e intensa anche nelle parole e sui volti di coloro che sono intervenuti.

Il Rettore Alberto Tesi ha definito questa storia come «una fra le più importanti esperienze nella ricerca e nella collaborazione dell’Università fiorentina con istituzioni di altre nazioni».

Il prof.  Alessandro Bartoloni, che vi ha impegnato cuore e professionalità nei suoi primi 25 anni di lavoro di ricercatore, ha sottolineato il carico di esperienza umana che ha accompagnato la ricerca scientifica e la particolare integrazione con tutto il processo di sviluppo del popolo guaranì.

«Ci coinvolse 25 anni fa il Padre Tarcisio… Non siamo stati soli… Piano, piano… altre università italiane (Siena, Pisa, Catania, Roma-Sapienza) e istituzioni di ricerca europee e latino-americane hanno collaborato con noi. Ma il punto fondamentale è stato il rapporto con questo popolo, le sue persone, le sue categorie culturali e le sue strutture civili che piano, piano abbiamo visto ricostituirsi e consolidarsi»

Ha sottolineato questo valore anche il ministro della Sanità boliviano, la signora Nila Heredia, volata a Firenze proprio per questo incontro. In pochi cenni ha descritto la situazione politica e sociale della sua nazione, col suo Presidente indio e la nuova Costituzione che si fonda sull’interculturalità tra le 36 etnie indigene che, insieme ai bianchi e ai meticci, compongono la Bolivia: tutte e tutti meritano ascolto, rispetto e cura. Non si può essere sani da soli… Uno da solo forse può star meglio di un altro, ma si è veramente sani quanto tutto e tutti sono sani: le persone, le relazioni, la famiglia, la società, la stessa terra, amata e rispettata… Lo Stato deve farsi carico di questo impegno. 

Nel Chaco boliviano, attraverso una convenzione tra il Ministero della Sanità e il Vicariato Apostolico di Camiri-Cuevo è stato realizzato un progetto pilota di sistema unico di sanità, che è stato riconosciuto come modello dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Numerosi gli interventi coordinati dal giornalista televisivo Walter Daviddi: quello di Christian Darras, (direttore OPS/OMS in Bolivia), di Michele Papa (relazioni internazionali dell’Università di Firenze), dei professori Cancrini (Sapienza-Roma), Tolari (Pisa), Gensini (Firenze), del dottor Bruzzone  (Cooperazione Italiana in Bolivia) e di M. José Caldès (responsabile Cooperazione sanitaria della Regione Toscana).

È stato invitato a intervenire anche mons. Rodolfo Cetoloni, vescovo di Montepulciano-Chiusi-Pienza, che agli inizi del progetto era ministro provinciale dei farti minori toscani. Ha utilizzato un’immagine: il telaio visto in una capanna guaranì tanti anni fa. Con i suoi fili ruvidi si sono intessuti tanti interventi e persone. Ne è nato un ricamo non di superficie, ma forte, inserito e intessuto con la stessa storia del popolo guaranì. Quei fili portanti erano fatti anche del lavoro oscuro e antico dei missionari, dell’opera delle suore, dei volontari: il Vangelo annunciato si è coniugato continuamente col lavoro di promozione umana cercata insieme a quella gente, ridiventata protagonista della propria storia.

Un percorso tra medicina, cultura e «fatti dell’anima» Un frate minuto, il padre Tarcisio Ciabatti, nato alle falde della Verna e partito per la Bolivia intorno a metà anni ’70: è lui il perno del progetto di collaborazione tra la Toscana e la Bolivia, e di quanto vi è cresciuto attorno. Anche lui era presente a Firenze, lo scorso 1 ottobre, alla presentazione del libro «Mbegue Mbegue» che racconta questi venticinque anni di carità e promozione umana.Era seduto anche lui al tavolo dei relatori, ma, commosso, ha saputo o voluto dire solo poche parole di gratitudine, frammiste a espressioni di preghiera e di ringraziamento in guaranì.

Così ha quasi costretto a  intervenire suor Maria Bettinsoli, delle suore del Verbo Incarnato che hanno la loro casa madre a Fiesole e che sono in Bolivia dagli anni ’80. Dopo anni di lavoro come infermiera a Villamontes, ora è la Direttrice del Rete sanitaria della Provincia Cordillera. Suor Maria ha accennato a quanto è stato fatto e a come sia impegnativo il lavoro in una zona vastissima:  un’unica strada asfaltata e tanti villaggi sparsi sulla Cordillera. Dalle sue parole appariva commovente scoprire questo popolo che rinasce e incoraggiante vedere una Chiesa  che è stata e continua ad essere elemento prezioso di questo cammino.

Attraverso la convenzione tra Ministero della Sanità e Vicariato Apostolico l’opera degli antichi missionari gesuiti è stata ripresa dai francescani ed è portata avanti con la collaborazione di vari istituti religiosi, come appunto le Suore del Verbo Incarnato o quelle di Santa Elisabetta. Ma nel settore sanitario è stata proprio la collaborazione di tutti con la Università di Firenze e altre entità che ha permesso questo splendido processo.

Commosso e toccante l’intervento di un medico pratese, Mimmo Roselli che è stato il punto di contatto tra Padre Tarcisio e l’Università di Firenze. In questi anni, pur passando dall’esercizio della medicina alla pittura con mostre in varie parti del mondo, egli si è mantenuto sempre legato ai guaranì e a questo progetto. Anzi, grazie a lui si stanno muovendo altri spazi del recupero della cultura guarnì come l’arte e la musica presso l’antica  missione francescana di Santa Rosa.

Ha concluso l’incontro il prof. Franco Paradisi, che è stato il maestro di tutti questi anni di ricerca. «Non voglio parlare di aspetti tecnici – ha detto – bisogna raccontare dei fatti dell’anima che hanno intessuto quest’avventura. Essi sono più importanti della scienza. Quando partii per il primo viaggio, pensavamo a una normale collaborazione scientifica come in tanti progetti, ma…  entrare a contatto con Tarcisio è come andare in orbita. Parti e non sai per dove: lui lo sa e impari a fidarti… Il contatto con quella realtà è l’avventura più grande della mia vita, va oltre la scienza e la medicina. Il vero di tutto è nello spirito e lì va cercato. Quel mondo mi ha fatto vivere diversamente!»

Poi, ormai quasi dato per disperso, è giunto Higinio Segundo, un medico, puro guaranì, Assessore alla Sanità della Assemblea del Pueblo Guaranì. La gioia di essere finalmente arrivato illuminava i suoi occhi stanchi di un viaggio avventuroso e pieno di intoppi burocratici. È certamente una tappa nella storia della rinascita del suo popolo! Ha saputo dire poco più di quello che avevamo udito, ma l’abbraccio di Tarcisio e degli altri che in questi 25 anni lo hanno aiutato a formarsi, e ora lo hanno come collega e amico, raccontava più di mille convegni.

L’incontro è continuato nel pomeriggio al Convento di San Salvatore al Monte alle Croci, sede del Centro Missionario Francescano. All’aula solenne del Rettorato si sono sostituiti i chiostri e le sale semplici del Convento, ma il clima è diventato ancor più familiare: sembrava di essere sotto la grande Capanna che fa da aula magna a Gutierrez, nel Chaco Boliviano… O forse si viveva il «piccolo villaggio-convento globale» che sta diventando il mondo: proprio in queste esperienze potrebbe trovare una chiave di grande apertura e fecondità.