Vita Chiesa

Papa Francesco: a Roma Tre, «Università vuol dire dialogo»

A quella di Giulia Trifilio, che gli ha chiesto «quali possono essere le medicine per contrastare le manifestazioni di un agire violento, purtroppo sempre presente nella storia dell’umanità»,  Francesco ha fatto notare che «la tonalità del linguaggio è salita tanto»: «Oggi si parla per strada, a casa, si grida, anche si insulta con una normalità, c’è violenza nell’esprimersi, nel parlare. Questa è una realtà che tutti viviamo: se c’è qualcosa sulla strada, qualche problema lì, prima di domandare cosa è successo, un insulto e poi si domanda il perché». «Anche la fretta, la celerità della vita ci fa violenti a casa», il monito del Papa, «e tante volte dimentichiamo a casa di dire: ‘buongiorno’. ‘Ciao, ciao, questi saluti anonimi…». «La violenza è un processo che ci fa ogni volta più anomimi, ti toglie il nome: anonimi gli uni verso gli altri», ha avvertito il Papa: «E i nostri rapporti sono senza nome: sì, tu sei una persona con un nome, ma io ti saluto come se tu fossi una cosa. E questo che vediamo qui cresce, cresce, cresce e diviene la violenza mondiale».

«Nessuno oggi può negare che stiamo in guerra: è una terza guerra mondiale a pezzetti, ma c’è», ha ribadito Francesco, secondo il quale «bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più. Ci sono tante medicine contro la violenza, ma la prima di tutte è il cuore, il cuore che sa ricevere cosa pensi tu». «Prima di discutere, dialogare», il consiglio del Papa: «Se tu pensi differente da me, il dialogo avvicina: non solo avvicina le persone, avvicina i cuori. Col dialogo si fa l’amicizia, si fa l’amicizia sociale». «In una società dove la politica si è abbassata tanto – sto parlando della società mondiale – si perde il senso della costruzione sociale, della convivenza sociale, e la convivenza sociale si fa col dialogo», la ricetta del Papa: «E per dialogare, primo: ascoltare». «Tante volte, questo si vede tanto quando ci sono le campagne elettorali, le discussioni alla tv, prima che l’altro finisca di parlare arriva subito la risposta», ha osservato Francesco: «Ma aspetta, ascolta bene cosa si dice e poi pensa e rispondi», il suo consiglio: «La pazienza del dialogo, dove non c’è dialogo c’è violenza».

«Le guerre – ha detto ancora a braccio il Papa agli studenti di Roma Tre – non incominciano là, cominciano nel tuo cuore, nel nostro cuore: quando io non sono capace di aprirmi agli altri, di rispettare gli altri, di parlare con gli altri , di dialogare con gli altri, lì incomincia la guerra». «Quando non c’è dialogo a casa, quando invece di parlare si grida o si sgrida, o quando siamo a tavola e invece di parlare ognuno col suo telefonino sta parlando, sì, ma con altri», l’esempio citato da Francesco: «Quel germe è l’inizio della guerra, perché non c’è dialogo. E questo è il fondamento. E questo dice tanto all’università». Nella visione del Papa, infatti, «l’università è il posto dove si può dialogare, dove c’è posto per tutti: quello che la pensa così, quello che la pensa nell’altro modo…». «Dialogare è proprio dell’università», ha rimarcato Francesco: «Una università dove soltanto si va a scuola, si sente il professore o la professoressa e poi si torna a casa, non è un’università. L’università deve avere questo lavoro artigianale del dialogo. Sentire le lezioni, la saggezza dei professori, ma il dialogo, la diffusione: questo è importante».

Le Università di élite. «Vi vorrei parlare di una cosa che non so se in Italia c’è, ma c’è da altre parti». Con queste parole, pronunciate a braccio come il resto del suo discorso, il Papa, dialogando con gli studenti di Roma Tre, ha introdotto il tema delle «università di élite, che sono generalmente le cosiddette università ideologiche»: «Dove tu vai – ha spiegato – ti insegnano questa linea soltanto di pensiero, questa linea ideologica e ti preparano per fare un agente di questa ideologia». «Quella non è università», ha ammonito Francesco: «Dove non c’è dialogo, dove non c’è confronto, ascolto, rispetto per come la pensa l’altro, dove non c’è amicizia, la gioia del gioco dello sport, non c’è università». «Tutti insieme!», ha esclamato il Papa: «Io vado all’università per imparare: sì, ma per vivere il vero, cercare il vero; per vivere il buono, cercare la bontà; per vivere il bello, cercare la bellezza. Verità, bontà e bellezza, ma questo si fa tutti insieme, è un cammino universitario che non finisce mai!». «Per questo è tanto importante la presenza degli antichi alunni dell’università, nel corpo universitario», ha aggiunto Francesco: «Così i nuovi, quelli che frequentano adesso il corso, possono avere il dialogo con loro». «Quando si fa questo, l’agire non è violento», ha assicurato il Papa: «È bello, è bellissimo, è la gioia di fare una strada insieme, senza gridare, senza insultare, e cercando sempre la verità, la bontà e la bellezza».

Un cambiamento d’epoca. «È vero che cambiano le cose: l’epoca è diversa e dobbiamo prendere le cose come vengono». Così il Papa ha risposto alla domanda di Riccardo Zucchetti, che ha citato una sua frase: «Stiamo vivendo non un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca». «Se non impariamo a prendere la vita come viene, mai impareremo a viverla», ha spiegato Francesco nel suo discorso a braccio agli studenti di Roma Tre: «È il primo passo». Per Francesco, «la vita somiglia un po’ al portiere della squadra, che prende il pallone da dove lo buttano, e la vita la si deve prendere da dove viene!».  «Non è soltanto i ‘Tempi moderni’ di Charlie Chaplin, è un’epoca diversa che viene da un parte da dove non mi aspettavo», ha proseguito il Papa: «Ma devo prenderla, come viene, senza paura. La vita è così. Cambio di epoca». «Noi dobbiamo cercare sempre l’unità», l’invito del Papa, che «è cosa totalmente diversa dall’uniformità. L’unità ha bisogno, per essere una, delle differenze: unità nella diversità. L’unità si fa con la diversità». «Viviamo epoca di globalizzazione – l’analisi di Francesco – e lo sbaglio è pensare la globalizzazione come se fosse un pallone, una sfera, dove ogni punto è a uguale distanza dal centro, non c’è differenza, tutto è uniforme». «Questa uniformità è la distruzione dell’unità, perché ti toglie la capacità di essere differente», ha ammonito il Papa soffermandosi sull’«unità delle differenze»: «Non la sfera, ma il poliedro: c’è una globalizzazione poliedrica, c’è un’unità, ma ogni persona, ogni razza, ogni Paese, ogni cultura sempre conserva la sua identità propria. E questa è l’unità nella diversità che la globalizzazione deve cercare». «L’unità di una università va per quella strada: l’unità nella diversità», la ricetta di Francesco: «E quando si fa questo le culture crescono e il livello culturale cresce, perché  c’è un dialogo continuo tra i lati del poliedro che sono uniti nell’unità». «Il vero pericolo mondiale è concepire una unità, una globalizzazione nell’uniformità, e questo distrugge», il monito del Papa: «La vera unità si fa nella diversità, e così possiamo parlare di una ‘communis patria’, perché siamo accommunati ma ognuno è diverso, ognuno è distinto: anche nel mondo, tutti siamo distinti, tutti siamo diversi».

«Rapidazione». Il Papa ha citato questa parola, inventata dagli olandesi e simile «alla progressione geometrica nel tempo», per descrivere la «celerità» in cui siamo immersi nell’epoca dei social network, oggetto di una delle domande degli studenti di Roma Tre. «È vero che c’è una celerità», ha ammesso Francesco: «Gli olandesi avevano inventato una parola: ‘rapidazione’, come la progressione geometrica nel tempo. Il movimento quando arriva alla fine è più veloce, diceva già Aristotele. Il pericolo è di non avere il tempo di fermarsi per un’assimilazione, per pensare, riflettere». «È importante abituarsi a questa comunicazione, senza che questa rapidazione mi tolga la libertà di dire no», il suggerimento del Papa: «Abituarsi al dialogo a questa velocità». «Tante volte una comunicazione così rapida, così leggera, può diventare liquida, senza consistenza: e questo è uno dei pericoli della società», ha ammonito Francesco, «non è una parola mia, l’ha detto Bauman da tempo: liquidità senza consistenza». «La sfida è trasformare la liquidità in concretezza», l’invito di Francesco: «La parola per me chiave per rispondere alla domanda è concretezza. Contro la liquidità, la concretezza».

«Pensiamo all’economia», l’esempio scelto dal Papa: «Qual è il dramma oggi? Quando c’è un’economia liquida c’è mancanza di lavoro, disoccupazione. Quando c’è liquidità nell’economia non c’è lavoro concreto». Poi un monito alla «nostra cara madre Europa»: «Come si può pensare che paesi sviluppati abbiano una disoccupazione giovanile così forte?», l’interrogativo del Papa, che ha ricordato come le cifre della disoccupazione giovanile, nel nostro Continente, per i giovani dai 25 anni in giù vanno dal 40 fino a quasi il 60%.  «Questa liquidità dell’economia toglie la concretezza del lavoro e toglie la cultura del lavoro, perché non si può lavorare. I giovani non sanno cosa fare!», la denuncia di Francesco salutata da un applauso: «E i giovani che sono senza lavoro, perché non lo trovano, girano, girano, e li sfruttano. Alla fine l’amarezza del cuore li porta alle dipendenze o al suicidio». «Dicono che le vere statistiche dei suicidi giovanili non sono pubblicate, si pubblica qualcosa ma non quelle vere», ha riferito il Papa. «La mancanza di lavoro mi porta, mah vado dall’altra parte e mi arruolo esercito del terrorismo, almeno ho qualcosa da fare e do senso alla mia vita: è terribile!», il grido d’allarme di Francesco, secondo il quale «l’economia liquida deve essere concreta. Per risolvere i problemi economici, sociali, culturali, ci vuole concretezza: altrimenti non si possono risolvere». «Cercare soluzioni da proporre ai problemi reali, contro questa cultura liquida», il compito assegnato all’ateneo.

Oggi i migranti «fuggono, per arrivare in Europa dove pensano che avranno uno status migliore, ma poi anche lì sono sfruttati dagli sfruttatori dei barconi, quelli che hanno fatto del Mediterraneo un cimitero». Nella parte finale del suo discorso all’Università Roma Tre, il Papa si è soffermato a braccio sulle migrazioni. «Non dimentichiamo: oggi il Mediterraneo, il ‘Mare Nostrum’ è un cimitero! Pensiamo a questo quando stiamo da soli, come se fosse una preghiera!», l’invito. «Quatto anni fa, quando sono andato a Lampedusa – è stato il primo viaggio che ho fatto, ho sentito che dovevo farlo – incominciava il fenomeno», le parole di Francesco: «Adesso è di tutti i giorni». «Come si devono ricevere i migranti? Come si devono accogliere?», si è chiesto: «Prima di tutto come fratelli e sorelle. Sono uomini e donne come noi», la risposta tra gli applausi. Secondo: «Ogni Paese deve vedere quale numero di migranti è capace di accogliere. È vero, non si può accogliere se non c’è la possibilità, ma tutti possono fare qualcosa». Poi, «non solo accogliere: integrare, cioè ricevere questa gente e cercare di integrarli anche noi: che imparino la lingua, cercare un lavoro, un’abitazione… Che ci siano organizzazioni per integrare».

Integrazione è scambio tra culture. «L’esperienza che ho avuto quando è venuta Nour – ha raccontato il Papa a proposito di una delle sue interlocutrici nelle domande – è stata che  tre giorni dopo i bambini andavano a scuola, e quando sono venuti tutti insieme da me a un pranzo dopo tre mesi, i bambini parlavano l’italiano. I bambini imparano subito. Questo è integrare, e la maggioranza aveva lavoro, e aveva una persona che li accompagnava nell’integrazione. Le porte aperte. Loro portano una cultura, che è ricchezza per noi, ma anche loro devono ricevere la nostra cultura e fare uno scambio di culture. Rispetto, e questo toglie la paura». Ma la paura «non è soltanto dei migranti», ha puntualizzato Francesco: «I delinquenti che vediamo sui giornali sono nativi di qui e migranti, c’è di tutto. Ma integrare è importante». Poi «un esempio che è triste»: «I ragazzi che hanno fatto strage di Zaventem erano belgi, nati in Belgio, figli di emigranti ma ghettizzati, non integrati», ha fatto notare il Papa. Al contrario, «ci sono alcuni Paesi d’Europa che danno un bell’esempio di integrazione». «Io conosco molto bene le dittature militari in America Latina», ha assicurato Francesco citando il caso della Svezia, che «ha ricevuto tanti migranti sudamericani» che «subito, il giorno dopo, avevano un lavoro». Su 9 milioni di abitanti, 800mila sono i «nuovi svedesi, figli di emigranti integrati», ha ricordato il Papa: «Il giorno in cui partivo dalla Svezia è venuta a congedarmi a nome del governo un ministro donna, figlia di una donna svedese e di un padre immigrato. Sanno fare questo, e quando c’è questa accoglienza – accompagnare e integrare – non c’è pericolo con le migrazioni: si riceve una cultura e si offre un’altra cultura. Questa è la risposta alla paura», ha concluso Francesco tra gli applausi. Prima di congedarsi, uno slogan di sintesi: «Università, dialogo nelle differenze».

All’inizio dell’incontro il rettore, Mario Panizza, aveva presentato al Papa l’Università Roma Tre, che compie 25 anni: «Il nostro ateneo – ha detto –  non ha un perimetro definito: si articola su più sedi, ben riconoscibili, che hanno costituito, già al momento della fondazione, il carattere di un luogo aperto, pronto a evidenziare i problemi della città, a partecipare alla programmazione di uno sviluppo coordinato e a mantenere costante l’attenzione ai valori umanistici, ai temi sociali e al miglioramento scientifico e tecnologico».

«Siamo diventati tutti cittadini onorari di questo comune e siamo onorati di questo»: con queste parole il rettore ha salutato il sindaco di San Giuseppe Jato, presente anche lui alla visita di oggi ed impegnato nella lotta contro la mafia. «Le Università, salde nei loro principi ispiratori e fondanti, sentono il dovere di prestare la massima attenzione a tutti i processi di trasformazione in atto nella società», ha spiegato Panizza: «Oggi il tema della sostenibilità partecipa a definire la politica accademica, aiutando gli studenti a diventare laureati, professionisti, cittadini di un mondo globale. Sapere, saper fare e saper essere sono i principi etici, oltre che formativi, alla base del nostro lavoro».

Di qui la rilevanza della «terza missione delle università, sempre più integrata con la didattica e la ricerca», che «esprime la capacità degli atenei di aprirsi al mondo e di saper interpretare i bisogni di conoscenza e di innovazione con l’obiettivo di coinvolgere la società nel processo di crescita culturale del paese». Tale impegno, ha precisato Panizza, «non è solo formativo», ma «affronta compiti concreti, come, di fronte agli attuali disastri ambientali, partecipare al lavoro di ricostruzione di scuole e servizi nei centri colpiti dal terremoto». Secondo il rettore, «non pochi degli attuali problemi di crisi e di conflitto possano avviarsi a soluzione attraverso un approccio nuovo, interdisciplinare e interistituzionale, in grado di fornire soluzioni efficaci, attente a comprendere le esigenze storiche e culturali delle popolazioni». In questa prospettiva, «un ruolo importante deve essere svolto dalle università che, grazie anche alla costituzione di partenariati con organizzazioni internazionali e caritatevoli, istituzioni accademiche, culturali e civili, possono mettere in campo e condividere le proprie esperienze e conoscenze».

testo scritto consegnato al rettore