Vita Chiesa

Papa Francesco ai nuovi vescovi: chiamati alla santità. Più attenti nella selezione dei preti

Di fronte al ministero episcopale, «nessun credito possiamo vantare e non ci sono titoli di proprietà o diritti acquisiti». Lo ha detto il Papa, ricevendo oggi in udienza circa 130 nuovi vescovi nominati dal 2017 allo scorso luglio, dipendenti dalla Congregazione per i Vescovi e da quella per le Chiese Orientali, che partecipano al Corso promosso dalla Congregazione per i Vescovi.

«Non siete frutto di uno scrutinio meramente umano, ma di una scelta dall’Alto», ha ricordato Francesco ai presenti: «Perciò da voi si richiede non una dedizione intermittente, una fedeltà a fase alterne, una obbedienza selettiva, ma siete chiamati a consumarvi notte e giorno». Di qui la necessità di «restare vigili anche quando sparisce la luce, o quando Dio stesso si cela nella tenebra, quando la tentazione di arretrare si insinua e il maligno, che è sempre in agguato, suggerisce sottilmente che ormai l’alba non verrà più. Proprio allora, di nuovo prostrarsi con il viso a terra, per ascoltare Dio che parla e rinnova la sua promessa mai smentita. E poi rimanere fedeli anche quando, nel calore del giorno, vengono meno le forze della perseveranza e il risultato della fatica più non dipende delle risorse che abbiamo». No, allora, alla «narcisistica pretesa di essere essenziali», sì invece alla santità che consiste nel «mettere Dio al centro: Egli è Colui che chiede tutto ma in cambio offre la vita in pienezza». «Non quella vita annacquata e mediocre, vuota di senso perché piena di solitudine e di superbia, ma la vita che sgorga dalla sua compagnia che mai viene meno, dalla forza umile della croce del suo Figlio, dalla sicurezza serena dell’amore vittorioso che ci abita», ha puntualizzato il Papa.

«Non lasciatevi tentare da racconti di catastrofi o profezie di sciagure, perché quello che conta veramente è perseverare impedendo che si raffreddi l’amore e tenere alto e levato il capo verso il Signore, perché la Chiesa non è nostra, ma è di Dio!». È il monito del Papa. «Lui c’era prima di noi e ci sarà dopo di noi!», ha proseguito: «Il destino della Chiesa, del piccolo gregge, è vittoriosamente nascosto nella croce del Figlio di Dio. I nostri nomi sono scolpiti nel suo cuore, i nostri nomi sono scolpiti nel suo cuore; la nostra sorte è nelle sue mani». «Non spendete le vostre migliori energie per contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze, lasciandovi rimpiccolire il cuore e rattrappire gli orizzonti», la consegna di Francesco: «Cristo sia la vostra gioia, il Vangelo sia il vostro nutrimento. Tenete fisso il vostro sguardo solo sul Signore Gesù e, abituandovi alla sua luce, sappiate cercarla incessantemente anche dove essa si rifrange, sia pure attraverso umili bagliori. Là, nelle famiglie delle vostre comunità, dove, nella pazienza tenace e nella generosità anonima, il dono della vita viene cullato e nutrito. Là, dove sussiste nei cuori la fragile ma indistruttibile certezza che la verità prevale, che amare non è vano, che il perdono ha il potere di cambiare e di riconciliare, che l’unità vince sempre la divisione, che il coraggio di dimenticare sé stessi per il bene dell’altro è più appagante del primato intangibile dell’io. Là, dove tanti consacrati e ministri di Dio, nella silenziosa dedizione di sé, perseverano incuranti del fatto che il bene spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine. Essi continuano a credere e a predicare con coraggio il Vangelo della grazia e della misericordia a uomini assetati di ragioni per vivere, per sperare e per amare. Non si spaventano davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa».

«So bene quanto nel nostro tempo imperversano solitudine e abbandono, dilaga l’individualismo e cresce l’indifferenza al destino degli altri. Milioni di uomini e donne, bambini, giovani sono smarriti in una realtà che ha oscurato i punti di riferimento, sono destabilizzati dall’angoscia di appartenere a nulla». È l’analisi del Papa, che nella parte centrale del suo discorso ai vescovi di recente nomina ha denunciato: «La loro sorte non interpella la coscienza di tutti e spesso, purtroppo, coloro che avrebbero le maggiori responsabilità, colpevolmente si scansano». «Ma a noi non è consentito ignorare la carne di Cristo, che ci è stata affidata non soltanto nel Sacramento che spezziamo, ma anche nel Popolo che abbiamo ereditato», il monito rivolto ai vescovi: «Anche le sue ferite ci appartengono. È doveroso toccarle non per farne manifesti programmatici di pur comprensibili rabbie, ma luoghi in cui la Sposa di Cristo impara fino a che punto può sfigurarsi quando si sbiadiscono nel suo volto i tratti dello Sposo. Ma impara anche da dove ripartire, in umile e scrupolosa fedeltà alla voce del suo Signore. Solo Lui può garantire che, nei tralci della sua vigna, gli uomini non trovino appena uva selvatica, ma il vino buono , quello della vera vite, senza la quale nulla possiamo fare». «Questo è l’obiettivo della Chiesa: distribuire nel mondo questo vino nuovo che è Cristo», ha sintetizzato Francesco: «Niente ci può distogliere da questa missione. Abbiamo continuo bisogno di otri nuovi, e tutto ciò che facciamo non è mai abbastanza per renderli degni del vino nuovo che sono chiamati a contenere e a versare. Ma, proprio per questo, occorre che i contenitori sappiano che senza il vino nuovo saranno comunque giare di pietra fredda, capaci di ricordare la mancanza ma non di donare la pienezza». «Per favore, nulla vi distolga da questa meta: donare la pienezza!», l’appello.

La santità «cresce mentre si scopre che Dio non è addomesticabile, non ha bisogno di recinti per difendere la sua libertà, e non si contamina mentre si avvicina, anzi, santifica ciò che tocca», ha spiegato il Papa ai vescovi di recente nomina. «Non serve la contabilità delle nostre virtù, né un programma di ascesi, una palestra di sforzi personali o una dieta che si rinnova da un lunedì all’altro, come se la santità fosse frutto della sola volontà», ha proseguito: «La sorgente della santità è la grazia di accostarci alla gioia del Vangelo e lasciare che sia questa a invadere la nostra vita, in modo tale che non si potrà più vivere diversamente». «Prima ancora che noi esistessimo, Dio c’era e ci amava», ha ricordato Francesco: «La santità è toccare questa carne di Dio che ci precede. È entrare in contatto con la sua bontà». «Non siamo noi all’origine della nostra ‘porzione di santità’, ma è sempre Dio», ha precisato Francesco: «È una santità piccina, che si nutre dell’abbandono nelle sue mani come un bimbo svezzato che non ha bisogno di chiedere la dimostrazione della prossimità materna. È una santità consapevole che nulla di più efficace, più grande, più prezioso, più necessario potete offrire al mondo della paternità che è con voi. Incontrandovi, ogni persona possa almeno sfiorare la bellezza di Dio, la sicurezza della sua compagnia e la pienezza della sua vicinanza».

«Vi raccomando di non vergognarvi della carne delle vostre Chiese». È la richiesta del Papa ai nuovi vescovi, ai quali Francesco ha chiesto di entrare «in dialogo con le loro domande» e ha raccomandato «una particolare attenzione al clero e ai seminari». «Non possiamo rispondere alle sfide che abbiamo nei loro confronti senza aggiornare i nostri processi di selezione, accompagnamento, valutazione», la tesi di Francesco: «Ma le nostre risposte saranno prive di futuro – ha aggiunto riferendosi indirettamente alla questione degli abusi – se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato, se non riveleranno perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse». «Ognuno di noi deve umilmente entrare nel profondo di sé e domandarsi che cosa può fare per rendere più santo il volto della Chiesa che governiamo in nome del Supremo Pastore», l’invito del Papa, secondo il quale «non serve puntare solo il dito sugli altri, fabbricare capri espiatori, stracciarsi le vesti, scavare nella debolezza altrui come amano fare i figli che hanno vissuto in casa come fossero servi»: «Qui è necessario lavorare insieme e in comunione, certi però che l’autentica santità è quella che Dio compie in noi, quando docili al suo Spirito ritorniamo alla gioia semplice del Vangelo, così che la sua beatitudine si renda carne per gli altri nelle nostre scelte e nelle nostre vite». «Vi invito pertanto – l’esortazione finale – ad andare avanti gioiosi e non amareggiati, sereni e non angosciati, consolati e non desolati – cercate la consolazione del Signore – conservando il cuore di agnelli che, anche se circondati da lupi, sanno che vinceranno perché contano sull’aiuto del pastore.

«La teologia non può essere astratta: se fosse astratta, sarebbe ideologia», ha detto, a braccio il Papa. «Oggi più che mai abbiamo bisogno di una rivoluzione della tenerezza: questo ci salvera!», ha esclamato ancora a braccio al termine del discorso, in cui ha spiegato che la teologia «nasce da una conoscenza esistenziale, nasce dall’incontro col Verbo fatto carne! La teologia è chiamata allora a comunicare la concretezza del Dio amore. E tenerezza è un buon ‘esistenziale concreto’, per tradurre ai nostri tempi l’affetto che il Signore nutre per noi». «Oggi ci si concentra meno, rispetto al passato, sul concetto o sulla prassi e più sul ‘sentire’», l’analisi di Francesco: «Può non piacere, ma è un dato di fatto: si parte da quello che si sente. La teologia non può certamente ridursi a sentimento, ma non può nemmeno ignorare che in molte parti del mondo l’approccio alle questioni vitali non inizia più dalle domande ultime o dalle esigenze sociali, ma da ciò che la persona avverte emotivamente. La teologia è interpellata ad accompagnare questa ricerca esistenziale, apportando la luce che viene dalla Parola di Dio. E una buona teologia della tenerezza può declinare la carità divina in questo senso. «La bellezza di sentirci amati da Dio e la bellezza di sentirci di amare in nome di Dio»: sono questi, per il Papa, i contenuti principali della teologia della tenerezza, che»ci svela, accanto al volto paterno, quello materno di Dio, di un Dio innamorato dell’uomo, che ci ama di un amore infinitamente più grande di quello che ha una madre per il proprio figlio».

«Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa facciamo, siamo certi che Dio è vicino, compassionevole, pronto a commuoversi per noi», ha assicurato Francesco, secondo il quale «tenerezza è una parola benefica, è l’antidoto alla paura nei riguardi di Dio». Sentirci amati, in questa prospettiva, significa «imparare a confidare in Dio», per dare alla Chiesa una teologia «gustosa», per «aiutarci a vivere una fede consapevole, ardente di amore e di speranza; per esortarci a piegare le ginocchia», per «appassionarci di Dio e dell’uomo». Di qui la necessità di «una teologia in cammino», ha concluso il Papa: «Una teologia che esca dalle strettoie in cui talvolta si è rinchiusa e con dinamismo si rivolga a Dio, prendendo per mano l’uomo; una teologia non narcisistica, ma protesa al servizio della comunità; una teologia che non si accontenti di ripetere i paradigmi del passato, ma sia Parola incarnata. Certamente la Parola di Dio non muta, ma la carne che essa è chiamata ad assumere, questa sì, cambia in ogni epoca. C’è tanto lavoro, dunque, per la teologia e per la sua missione oggi: incarnare la Parola di Dio per la Chiesa e per l’uomo del terzo millennio».