Vita Chiesa

Papa Francesco, conferenza stampa in aereo: quando ho incontrato i Rohingya ho pianto

«In quel momento, io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano, pure». Così il Papa nella conferenza stampa a bordo dell’areo che lo riportava da Dacca a Roma, ha raccontato ai giornalisti il momento privato dell’incontro con i Rohingya. «Io sapevo che avrei incontrato i Rohingya», ha specificato Francesco: «Non sapevo né dove né come, ma questo era condizione del viaggio, per me, e si preparavano i modi. Ma alla fine sono venuti. Erano spaventati, non sapevano… A un certo punto, dopo il dialogo interreligioso, la preghiera interreligiosa, questo ha preparato il cuore di tutti noi, eravamo religiosamente molto aperti. Io, almeno, mi sentivo così. Ed è arrivato il momento che loro venissero per salutarmi. In fila indiana – quello non mi è piaciuto, uno dopo l’altro –; ma subito volevano cacciarli via dal palco. E io lì mi sono arrabbiato e ho sgridato un po’ – sono peccatore – e ho detto tante volte la parola ‘rispetto’, rispetto. Ho fermato la cosa, e loro sono rimasti lì. Poi, dopo averli ascoltati a uno a uno con l’interprete che parlava la loro lingua, io cominciai a sentire qualcosa dentro: ‘Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola’, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono».

Interrogato sul motivo per cui in Myanmar non ha usato la parola Rohingya, il Papa ha commentato: «La cosa più importante è che il messaggio arrivi. Per questo, ho visto che se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, avrei sbattuto la porta in faccia. Ma ho descritto le situazioni, i diritti di cittadinanza, ‘nessuno escluso’, per permettermi nei colloqui privati di andare oltre. Io sono rimasto molto, molto soddisfatto dei colloqui che ho potuto avere, perché è vero, non ho avuto – diciamo così – il piacere di sbattere la porta in faccia, pubblicamente, una denuncia, no, ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato. E questo è molto importante, nella comunicazione: la preoccupazione che il messaggio arrivi. Tante volte, le denunce, anche nei media – non voglio offendere –, con qualche dose di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta e il messaggio non arriva».

«Oggi siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari», ha detto il Papa, rispondendo ad una domanda. «Oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità», il grido d’allarme di Francesco: «Sono armamenti sofisticati e anche crudeli, sono capaci anche di distruggere le persone senza toccare le strutture… Siamo al limite, e poiché siamo al limite io mi faccio questa domanda – non come Magistero pontificio, ma è la domanda che si fa un Papa -: oggi è lecito mantenere gli arsenali nucleari, così come stanno, o oggi, per salvare il creato, salvare l’umanità, non è necessario andare indietro?». Ci sono due forme di «incultura», ha proseguito il Papa citando Guardini: «Prima l’incultura che Dio ci ha dato per fare la cultura, con il lavoro, con l’investigazione e avanti, fare cultura. Pensiamo alle scienze mediche, tanto progresso, tanta cultura, alla meccanica, a tante cose. E l’uomo ha la missione di fare cultura a partire dalla incultura ricevuta. Ma arriviamo a un punto in cui l’uomo ha in mano, con questa cultura, la capacità di fare un’altra incultura: pensiamo a Hiroshima e Nagasaki. E questo 60, 70 anni fa. La distruzione. E questo succede anche quando nell’energia atomica non si riesce ad avere tutto il controllo: pensate agli incidenti dell’Ucraina. Per questo, tornando alle armi, che sono per vincere distruggendo, io dico che siamo al limite della liceità».

«Il viaggio in Cina per il momento non è in preparazione», ha precisato il Papa che ha fatto riferimento alle parole pronunciate, sempre in aereo, tornando dalla Corea: «Quando mi hanno detto che stavamo sorvolando il territorio cinese, e se volevo dire qualcosa, dissi che mi sarebbe piaciuto tanto visitare la Cina. Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta». «Le trattative con la Cina sono di alto livello culturali», ha reso noto Francesco a proposito dei rapporti tra la Cina e la Santa Sede: «Oggi, per esempio, in questi giorni, c’è una mostra dei Musei Vaticani in Cina, poi ce ne sarà una dei Musei cinesi in Vaticano… I rapporti culturali, scientifici, i professori, preti che insegnano all’Università statale cinese, ce ne sono… Questa è una cosa. Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con quella storia della Chiesa patriottica e della Chiesa clandestina, che si deve andare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo. Lentamente. Credo che in questi giorni, oggi o domani, incomincerà una seduta a Pechino della Commissione mista. E questo, con pazienza. Ma le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti, un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo». Riguardo al viaggio da cui è appena tornato, Francesco ha ricordato che il primo progetto «era di andare in India e in Bangladesh, ma poi le procedure sono andate per le lunghe». Il rinvio, però, «è stato provvidenziale, perché per visitare l’India ci vuole un solo viaggio: devi andare al sud, al centro, all’est, all’ovest, al nord per le diverse culture dell’India». «Spero di poterlo fare nel 2018, se vivo!», l’auspicio del Papa.

Testo integrale della conferenza stampa