Vita Chiesa

Papa in Bangladesh: incontro clero, «Il sacerdozio e la vita religiosa non sono carriere»

L’ultima giornata di Francesco in Bangladesh si è aperta con la Messa in privato, dopo la quale il Papa ha lasciato la nunziatura apostolica in auto per raggiungere la «Casa di Madre Teresa», che sorge nel quartiere di Tejgaon nel complesso parrocchiale della Holy Rosary Church che comprende l’antica Chiesa portoghese e ospita anche due cimiteri cristiani. È il cuore missionario del Bangladesh, quella Tejgaon dove nel 1580 i padri agostiniani portoghesi ottennero dal governatore imperiale, il permesso a costruire una chiesa e i mercanti lusitani dei negozi. Il Papa ha benedetto le tombe dove riposano molti missionari e, all’interno della Casa delle suore di Madre Teresa, ha abbracciato e salutato alcuni degli ospiti, orfani e malati. Quindi il passaggio nella Chiesa del Santo Rosario per il primo incontro della giornata.

«La Comunità cattolica in Bangladesh è piccola. Ma siete come il granello di senape che Dio porta a maturazione a suo tempo». È la fotografia scattata dal Papa nel discorso scritto, ma non pronunciato, in occasione dell’incontro con circa 1.500 sacerdoti, religiosi, religiose, consacrati, seminaristi e novizie alla Holy Rosary Church, chiesa cattedrale dell’arcidiocesi di Chittagong.

«Mi rallegro di vedere come questo granello stia crescendo e di essere testimone diretto della fede profonda che Dio vi ha dato», prosegue Francesco citando i « missionari devoti e fedeli che hanno piantato e curato questo granello di fede per quasi cinque secoli». «Vedo anche molte vocazioni nate in questa terra», l’omaggio: «Sono un segno delle grazie con cui il Signore la sta benedicendo». Poi il Papa si sofferma sulla preghiera del Rosario, una «magnifica meditazione sui misteri della fede che sono la linfa vitale della Chiesa, una preghiera che forgia la vita spirituale e il servizio apostolico», che ci esorta «a partecipare alla sollecitudine di Maria nei riguardi di Dio al momento dell’Annunciazione, alla compassione di Cristo per tutta l’umanità quando è appeso alla croce e alla gioia della Chiesa quando riceve il dono dello Spirito Santo dal Signore risorto». «Rispondere a tale chiamata è un processo che dura tutta la vita», spiega Francesco al clero del Bangladesh esortandolo alla preghiera, anche quando le giornate lunghe ci lasciano «stanchi».

«Il sacerdozio e la vita religiosa non sono carriere. Non sono veicoli per avanzare. Sono un servizio, una partecipazione all’amore di Cristo che si sacrifica per il suo gregge», ha scritto il Papa, nel discorso consegnato ma non pronunciato durante l’incontro con il clero con cui si è aperta l’ultima giornata in Bangladesh. «Le nostre vite non ci appartengono», prosegue Francesco: «Non siamo più noi che viviamo, ma Cristo vive in noi. Incarniamo questa compassione quando accompagniamo le persone, specialmente nei loro momenti di sofferenza e di prova, aiutandole a trovare Gesù». «Sono particolarmente grato perché in tanti modi molti di voi sono impegnati nei campi dell’impegno sociale, della sanità e dell’educazione, servendo alle necessità delle vostre comunità locali e dei tanti migranti e rifugiati che arrivano nel Paese», l’apprezzamento del Papa: «Il vostro servizio alla più ampia comunità umana, in particolare a coloro che si trovano maggiormente nel bisogno, è prezioso per edificare una cultura dell’incontro e della solidarietà». «Non lasciatevi mai scoraggiare dalle vostre mancanze o dalle sfide del ministero», l’esortazione del Papa, che ha ricordato come «la forza dell’amore di Cristo prevale sul male e sul Principe della menzogna, che cerca di trarci in inganno». «Non scoraggiatevi mai, perché la pazienza del Signore è per la nostra salvezza», conclude Francesco.

«La vocazione è un seme da far crescere e curare con tenerezza facendo attenzione al diavolo che semina zizzania e pregando per distinguere il seme buono da quello cattivo», ha detto il Papa parlando a braccio, in spagnolo. «Nelle vostre comunità di vescovi, preti, religiosi e religiose, seminaristi – alcune delle parole a braccio riferite da Radio Vaticana – state attenti alla divisione causata dalle chiacchiere, nemiche dell’armonia, e se avete qualcosa da dire ad un confratello, fatelo faccia a faccia». «Niente facce tristi, anche nel dolore e nelle difficoltà», ha concluso il Papa: «cercate la pace e trovate la gioia». 

«Come è brutta la zizzania» tra i preti. «Ogni fratello seminarista è un seme di Dio. E Dio lo guarda con tenerezza di padre», ha detto il Papa, nel discorso pronunciato a braccio. «Di notte, viene il nemico e semina un altro seme, e c’è il rischio che il seme buono rimanga soffocato dal seme cattivo», ha proseguito Francesco, che poi ha esclamato: «Com’è brutta la zizzania nei presbiteri… che brutta la zizzania nelle Conferenze episcopali… che brutta la zizzania nelle comunità religiose e nei seminari». «Curare il germoglio, il germoglio del buon seme, e vedere come cresce; vedere come si distingue dal cattivo seme e dall’erbaccia», il compito affidato ai presenti. Curare la propria vocazione, ha affermato il Papa, «vuol dire discernere. E rendersi conto che la pianta che cresce, se va da una parte, cresce bene; se invece va da un’altra parte, cresce male. E rendermi conto di quando sta crescendo male, o quando ci sono compagnie o persone o situazioni che ne minacciano la crescita. Discernere. E si può discernere soltanto quando si ha un cuore che prega. Pregare. Curare significa pregare. È chiedere a Colui che ha seminato il seme che mi insegni ad annaffiarlo. E se io sono in crisi, o mi sono addormentato, che la annaffi un pochino per me. Pregare significa chiedere al Signore di prendersi cura di noi, di darci la tenerezza che noi dobbiamo dare agli altri. Questa è la prima idea che vorrei darvi: l’idea di prendersi cura del seme affinché il germoglio cresca fino alla pienezza della sapienza di Dio. Curarlo con attenzione, curarlo con la preghiera, curarlo con il discernimento. Curarlo con tenerezza. Perché così Dio si prende cura di noi: con tenerezza di padre».

«Non è facile fare comunità. Non è facile. Le passioni umane, i difetti, i limiti minacciano sempre la vita comunitaria, minacciano la pace. La comunità di vita consacrata, la comunità del seminario, la comunità del presbiterio e la comunità della conferenza episcopale devono sapersi difendere da ogni tipo di divisione». Ad ammetterlo è stato il Papa, che nel discorso a braccio ha messo in guardia, ancora una volta dal «terrorismo» delle chiacchiere, il «parlar mare degli altri», che «distrugge una comunità». «Anche qui il Bangladesh deve essere un esempio di armonia», l’invito del Papa, ripetendo tra gli applausi la definizione che il card. Tauran ha dato del Paese. «Il nemico dell’armonia in una comunità religiosa, in un presbiterio, in un episcopato, in un seminario è lo spirito del pettegolezzo», ha ammonito Francesco: «E questo non l’ho inventato io: duemila anni fa, lo disse un certo Giacomo in una Lettera che scrisse alla Chiesa. La lingua, fratelli e sorelle, la lingua! Quello che distrugge una comunità è il parlare male degli altri. Sottolineare i difetti degli altri. Ma non dirlo all’interessato, ma dirlo ad altri, e così creare un ambiente di sfiducia, un ambiente di sospetto, un ambiente in cui non c’è pace e c’è divisione».

Per il Papa, «lo spirito del pettegolezzo è terrorismo. Sì, terrorismo. Perché chi parla male di un altro non lo fa pubblicamente. Il terrorista non dice pubblicamente: ‘Sono un terrorista’. E chi parla male di un altro, lo fa di nascosto: parla con uno, lancia la bomba e se ne va. E quella bomba distrugge. E lui se ne va, tranquillamente, a lanciare un’altra bomba. Cara sorella, caro fratello, quando hai voglia di parlar male di un altro, morditi la lingua! La cosa più probabile è che ti si gonfi, ma non farai male a tuo fratello o a tua sorella. Lo spirito di divisione». «Certo, voi mi potete chiedere», l’obiezione citata da Francesco: «Padre, però, se vedo un difetto in un fratello, in una sorella, e voglio correggerlo, o voglio dirlo, ma non posso tirare la bomba, cosa posso fare?». «Puoi fare due cose, non dimenticarle», la risposta: «La prima, se è possibile – perché non sempre è possibile – dirlo alla persona, faccia a faccia. Gesù ci dà questo consiglio. È vero che qualcuno mi può dire: ‘No, non si può fare, Padre, perché è una persona complicata’. Come te, complicata. Va bene, può darsi che per prudenza non sia opportuno. Secondo principio: se non puoi dirlo alla persona, dillo a chi può porre rimedio, e a nessun altro. O lo dici in faccia, o lo dici a chi può porre rimedio, ma in privato, con carità». «Quante comunità – non parlo per sentito dire, parlo di quello che ho visto –, quante comunità ho visto distruggersi per lo spirito del pettegolezzo! Per favore, mordetevi la lingua in tempo!», il consiglio del Papa.

No alle «facce da aceto». «È veramente triste incontrare sacerdoti, consacrati o consacrate, seminaristi, vescovi amareggiati, con una faccia triste, che viene voglia di chiedere: ‘Con cosa hai fatto colazione stamattina, con l’aceto?’». Nella parte finale del discorso rivolto a braccio al clero del Bangladesh, Francesco ha stigmatizzato «quell’amarezza del cuore, quando viene il seme cattivo e dice: ‘Ah guarda, quello l’hanno fatto superiore… quella l’hanno fatta superiora… quello l’hanno fatto vescovo… e a me lasciano da parte’. Lì non c’è gioia. Santa Teresa – la grande – ha una frase che è una maledizione; la dice alle sue monache: ‘Guai alla monaca che dice: Mi hanno fatto un’ingiustizia! Usa l’espressione spagnola ‘sinrazón’, nel senso di ingiustizia. Quando lei incontrava una suora che si lamentava perché ‘non mi hanno dato quello che mi dovevano dare’ o ‘non mi hanno promosso’, ‘non mi hanno fatto priora’ o qualcosa del genere, guai a quella monaca: è sulla brutta strada. Gioia. Gioia anche nei momenti difficili. Quella gioia che, se non può essere riso, perché il dolore è grande, è pace». Francesco ha poi citato un’altra «scena dell’altra Teresa, la piccola, Teresa di Gesù Bambino»: «Lei doveva accompagnare, tutte le sere, al refettorio una monaca vecchia, intrattabile, sempre arrabbiata, molto malata, poveretta, che si lamentava di tutto. E in qualsiasi punto la toccasse, diceva: ‘No, che mi fa male!’. Una sera, mentre la accompagnava attraverso il chiostro, sentì da una casa vicina la musica di una festa, la musica di gente che si stava divertendo, brava gente, come anche lei aveva fatto e aveva visto farlo alle sue sorelle, e si immaginò la gente che ballava, e disse: ‘La mia grande gioia è questa, e non la cambio con nessun’altra’. Anche nei momenti problematici, di difficoltà nella comunità – sopportare a volte un superiore o una superiora un po’ ‘strani’ – anche in questi momenti dire: ‘Sono contento, Signore. Sono contento’, come diceva Sant’Alberto Hurtado. La gioia del cuore». «Vi assicuro che mi dà tanta tenerezza quando incontro sacerdoti, vescovi o suore anziani, che hanno vissuto la vita con pienezza», la testimonianza del Papa: «I loro occhi sono indescrivibili, così pieni di gioia e di pace. Quelli che non hanno vissuto così la loro vita, Dio è buono, Dio li cura, ma mancano di quella luce negli occhi che hanno quelli sono stati gioiosi nella vita. Provate a cercare – soprattutto si vede nelle donne – provate a cercare nelle suore vecchie, quelle suore che hanno passato tutta la vita a servire, con tanta gioia e pace: hanno degli occhi furbi, brillanti… Perché hanno la sapienza dello Spirito Santo. Il piccolo germoglio, in questi vecchi, in queste vecchie, è diventato la pienezza dei sette doni dello Spirito Santo».

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