Vita Chiesa

Papa in Perù, ai vescovi: «imparare a parlare il linguaggio degli altri», anche nel «mondo digitale»

«Oggi lo chiameremmo un vescovo ‘di strada’. Un vescovo con le suole consumate dal camminare, dall’andare incontro per annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura», perché «la gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno». È l’identikit di San Toribio di Mongrovejo, arcivescovo di Lima e patrono dell’episcopato latinoamericano, tracciato dal Papa durante l’incontro con circa 60 vescovi peruviani, nella cattedrale di Lima. «Senza paura e senza repulsioni si addentrò nel nostro continente per annunciare la Buona Notizia», ha sottolineato Francesco a proposito di San Toribio, che Giovanni Paolo II, nel suo primo viaggio apostolico in questa terra, ha definito un «costruttore di unità ecclesiale». «È significativo che questo santo vescovo sia rappresentato nei ritratti come un nuovo Mosè», ha osservato Francesco ricordando che in Vaticano si conserva un quadro che raffigura San Toribio «che attraversa un grande fiume, le cui acque si aprono al suo passaggio come se si trattasse del mar Rosso, perché possa giungere all’altra sponda dove lo aspetta un numeroso gruppo di indigeni. Alle spalle di San Toribio c’è una gran moltitudine di persone, che è il popolo fedele che segue il suo pastore nell’opera dell’evangelizzazione».

San Toribio, ha fatto notare il Papa, quando ricevette il mandato di venire in queste terre come padre e pastore «lasciò un terreno sicuro per addentrarsi in un universo totalmente nuovo, sconosciuto e pieno di sfide. Volle andare all’altra riva in cerca dei lontani e dei dispersi. A tale scopo dovette lasciare le comodità del vescovado e percorrere il territorio affidatogli, in continue visite pastorali, cercando di arrivare e stare là dove c’era bisogno, e quanto c’era bisogno! Andava incontro a tutti per sentieri che, a detta del suo segretario, erano più per le capre che per le persone. Doveva affrontare i più diversi climi e ambienti; di 22 anni di episcopato, 18 li passò fuori dalla sua città percorrendo per tre volte il suo territorio. Sapeva che questa era l’unica forma di pastorale: stare vicino distribuendo i doni di Dio, esortazione che dava anche continuamente ai suoi presbiteri. Ma non lo faceva con le parole bensì con la sua testimonianza, stando lui stesso in prima linea nell’evangelizzazione».

«Imparare a parlare il linguaggio degli altri»: solo così, anche nel mondo digitale di oggi, l’evangelizzazione può essere efficace tanto da raggiungere la periferia non solo geografica, ma anche culturale. Il Papa ha sintetizzato così la lezione di San Toribio, che «promosse con molti mezzi un’evangelizzazione nella lingua nativa»: «Con il terzo Concilio di Lima dispose che i catechismi fossero realizzati e tradotti in quechua e in aymara. Spinse il clero a studiare e conoscer la lingua dei loro fedeli per poter amministrare i sacramenti in modo comprensibile. Visitando il suo popolo e vivendo con esso si rese conto che non bastava raggiungerlo solo fisicamente, ma era necessario imparare a parlare il linguaggio degli altri: solo così il Vangelo avrebbe potuto essere capito e penetrare nei cuori». «Com’è urgente questa visione per noi, pastori del secolo XXI, ai quali tocca imparare un linguaggio totalmente nuovo com’è quello digitale», l’analogia di Francesco: «Conoscere il linguaggio attuale dei nostri giovani, delle nostre famiglie, dei bambini… Come seppe vedere bene San Toribio, non basta solo arrivare in un posto e occupare un territorio, bisogna poter suscitare processi nella vita delle persone perché la fede metta radici e sia significativa. E a tale scopo dobbiamo parlare la loro lingua. Occorre arrivare lì dove si generano i nuovi temi e paradigmi, raggiungere con la Parola di Dio i nuclei più profondi dell’anima delle nostre città e dei nostri popoli. L’evangelizzazione della cultura ci chiede di entrare nel cuore della cultura stessa affinché questa sia illuminata dall’interno dal Vangelo».

Un vero pastore «non ha paura di denunciare gli abusi e gli eccessi commessi contro il suo popolo». Ne è convinto il Papa, che incontrando i vescovi nella cattedrale di Lima, sulla scorta di San Toribio, ha sottolineato come un buon vescovo «sa ricordare all’interno della società e delle comunità che la carità va sempre accompagnata dalla giustizia e non c’è autentica evangelizzazione che non annunci e denunci ogni mancanza contro la vita dei nostri fratelli, specialmente dei più vulnerabili». «I figli di Dio e i figli del demonio si manifestano in questo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e nemmeno chi non ama il suo fratello», ha fatto notare Francesco. San Toribio, nelle sue visite, «poté constatare gli abusi e gli eccessi che pativano le popolazioni originarie, e così non esitò, nel 1585, a scomunicare il governatore di Cajatambo, affrontando tutto un sistema di corruzione e una rete di interessi che attirava l’ostilità di molti. Così ci mostra il pastore che sa come il bene spirituale non possa mai essere separato dal giusto bene materiale e tanto più quando è messa a rischio l’integrità e la dignità delle persone».

San Toribio «capì che non bastava andare da tutte le parti e parlare la stessa lingua, era necessario che la Chiesa potesse generare propri pastori locali e così sarebbe diventata madre feconda». È una delle intuizioni, ancora attuali, di San Toribio, al centro del discorso pronunciato dal Papa. San Toribio, ha proseguito Francesco, «difese l’ordinazione dei meticci – quando essa era molto discussa – cercando di favorire e stimolare che il clero, se doveva distinguersi in qualcosa, fosse per la santità dei pastori e non per l’origine etnica. E questa formazione non si limitava solo allo studio nel seminario, ma proseguiva nelle continue visite che faceva loro. Lì poteva toccare con mano lo stato dei suoi preti, e prendersene cura». «Racconta la leggenda – l’aneddoto scelto dal Papa – che ai vespri di Natale sua sorella gli regalò una camicia da indossare durante le feste. Quel giorno lui andò a far visita a un prete e vedendo le condizioni in cui viveva, si tolse la camicia e gliela diede». «È il pastore che conosce i suoi sacerdoti», il commento di Francesco: «Cerca di raggiungerli, accompagnarli, stimolarli, ammonirli – ricordò ai suoi preti che erano pastori e non commercianti e perciò dovevano aver cura degli indigeni e difenderli come figli. Però non lo fa stando alla scrivania, e così può conoscere le sue pecore ed esse riconoscono nella sua voce la voce del Buon Pastore».

«Non possiamo negare le tensioni, le diversità; è impossibile una vita senza conflitti. Questi richiedono da noi, se siamo uomini e cristiani, di affrontarli e accettarli. Ma accettarli in unità, in dialogo onesto e sincero, guardandoci in faccia e e guardandoci dalla tentazione o di ignorare quanto accaduto o di restarne prigionieri e senza orizzonti che permettano di trovare strade che siano di unità e di vita». È la ricetta affidata dal Papa ai 60 vescovi del Perù, ai quali ha ricordato che «l’unità prevarrà sempre sul conflitto». «Lavorate per l’unità, non rimanete prigionieri di divisioni che riducono e limitano la vocazione alla quale siamo stati chiamati: essere sacramento di comunione», l’invito: «Non dimenticate che ciò che attirava nella Chiesa primitiva era come si amavano. Questa era – è e sarà – la migliore evangelizzazione».