Vita Chiesa

Pastorale sanitaria, così in Toscana

di Riccardo Bigi

La sua abitazione è fatta di due semplici stanzette nella parte più alta (e più antica) dell’ospedale Piero Palagi, l’ex Istituto Ortopedico Toscano, sul Viale dei Colli, a Firenze. Qui è arrivato nel 1981, come cappellano ospedaliero, qui ha maturato la sua dedizione alla pastorale della salute che l’ha portato a occuparsene a livello diocesano, poi regionale, e spesso anche nazionale. «Predicare il Vangelo, educare alla fede, assistere i malati sono tutte facce della stessa medaglia» afferma padre Renato Ghilardi, ben consapevole del fatto che l’impegno in questo campo non è, per la Chiesa, un fatto accessorio o facoltativo ma la risposta a un preciso comandamento di Gesù.

In questi trent’anni ha seguito l’evolversi e il crescere della pastorale della salute. Se infatti è vero che, nel campo dell’assistenza sanitaria, la Chiesa vanta un primato assoluto (quante istituzioni sanitarie sono nate in campo cattolico e quanto, del moderno concetto di cura, è dovuto a principi che vengono da una concezione cristiana dell’uomo!) è vero anche che per molti secoli questo compito è stato portato avanti da ordini religiosi, enti e istituzioni specifici ma non è stato sentito come impegno che coinvolge l’intera comunità dei cristiani, i laici, le parrocchie…

Il senso cristiano della sofferenzaDi «pastorale della salute» così come oggi la intendiamo, racconta padre Ghilardi, si inizia a parlare intorno agli anni ’80. Un anno chiave è il 1984 quando, con l’Enciclica «Salvifici doloris» Giovanni Paolo II pronuncia parole fondamentali sul senso cristiano della sofferenza. L’anno successivo viene istituita la Pontificia commissione per la pastorale degli operatori sanitari (che poi diventerà Pontificio consiglio) e inizia l’organizzazione di convegni internazionale sui temi della cura dei malati, dell’assistenza religiosa, del rapporto tra fede e scienza medica. Nel 1987 nasce al «Camillianum» il Pontificio istituto di teologia pastorale sanitaria, per la formazione dei cappellani ospedalieri; nel 1994 Giovanni Paolo II istituisce anche la Pontificia accademia per la Vita. Nel 1994, viene pubblicata la Carta degli Operatori Sanitari. Un documento ancora attualissimo, in cui tutti coloro che lavorano nel campo socio-sanitario vengono definiti «ministri della vita» e in cui si delineano le direttive fondamentali secondo cui operare di fronte ai tre grandi capitoli in cui il documento si suddivide: il generare la vita, il vivere, il morire. Procreazione, aborto, cure palliative, accanimento terapeutico, eutanasia: tutti i grandi temi si ritrovano in queste pagine.

E a livello di Chiesa italiana? Anche qui l’organizzazione degli organismi di pastorale sanitaria segue più o meno gli stessi tempi: il primo convegno nazionale degli operatori della pastorale della sanità, a Roma, è del 1980. Proprio pochi anni dopo (nel 1983) padre Ghilardi si trovò protagonista di un episodio che, per quanto in apparenza poco imporante, avrebbe segnato una svolta. «Accadde – racconta – che la Corte dei Conti mandò dei revisori a verificare la convenzione tra questo ospedale e la Provincia dei Frati Minori, che regolava la presenza dei cappellani. Noi frati eravamo qui dal 1920, ma nel frattempo c’era stata la revisione del Concordato, la riforma sanitaria, la nascita delle Usl e le cose dovevano essere riviste e messe in regola. Scrissi al cardinale Piovanelli, allora arcivescovo di Firenze, e gli suggerii che, visto che in campo sanitario erano le regioni ad avere competenze sempre maggiori, sarebbe stato bene creare una commissione regionale che potesse trattare queste cose». Così la Conferenza episcopale toscana nominò un Vescovo delegato (monsignor Eugenio Binini) e fu costituita la Consulta regionale, sulla falsariga della Consulta nazionale nata nel 1986 e di cui proprio padre Ghilardi fu incaricato, insieme ad altri, di scrivere il Regolamento. Dieci anni più tardi, nel 1996, nascerà a Roma anche l’Ufficio nazionale di pastorale sanitaria.

Cosa è cambiato con le nuove leggiIntanto però succedono altri cambiamenti: la legge del 1980 che istituiva le Usl, infatti, prevedeva come obbligatoria in ogni struttura di ricovero una unità di assistenza religiosa. Nel 1984 però, con la nascita del primo Piano Sanitario Regionale, questa legge veniva abrogata e con essa anche l’assistenza religiosa. E anche qui padre Ghilardi cercò di dare il suo contributo alla causa. «Andai a parlare – racconta – con l’allora assessore alla sanità, Giorgio Vestri, del PCI. Mi disse: va bene, faremo una legge apposita per l’assistenza religiosa nelle strutture sociali e sanitarie. Mi dette una bozza della legge: io mi consultai con Massimo Carli e Vincenzo Accursio, che lavoravano al servizio legislativo del Consiglio regionale, poi tornai da Vestri con delle modifiche. Lui mi disse che le accettava, ma che non poteva essere lui a far modificare una sua legge. Allora andai da Sergio Pezzati, che era capogruppo della DC: fu lui a proporre le modifiche davanti al Consiglio”. Padre Ghilardi racconta anche di una cena da Ottorino,  la sera prima della seduta: «Vestri mi disse “non si preoccupi, passerà”. E infatti passò la legge, con tutti gli emendamenti. Il giorno dopo l’Unità pubblicò un articolo molto critico, ma intanto la legge era approvata»«Vestri mi disse “non si preoccupi, passerà”. E infatti passò la legge, con tutti gli emendamenti. Il giorno dopo l’Unità pubblicò un articolo molto critico, ma intanto la legge era approvata». La legge prevedeva che l’assistenza venisse regolata attraverso protocolli di intesa tra l’amministrazione regionale e la Conferenza episcopale toscana: il primo fu siglato nel 1987. «Per stipularlo – ricorda padre Renato – ci hanno lavorato i maggiori esperti, sia da parte delle diocesi che della Regione».

Da allora, con i nuovi piani sanitari, le leggi e i protocolli sono stati rinnovati e modificati, ma la sostanza non è mai cambiata. Non solo: in tutta Italia questo procedimento è stato preso ad esempio, e in molte regioni sono stati sottoscritti accordi ispirati a quello toscano. La riprova è la lettera giunta dal Pontificio consiglio per la Pastorale della Salute che, al momento dell’approvazione dell’ultimo protocollo, nel 2008, lo definiva come «un modello a cui ispirarsi». Adesso le persone sono cambiate: padre Ghilardi tratta familiarmente tanto con Enrico Rossi (prima da assessore regionale alla sanità, poi da Presidente della Regione) quanto, a livello cittadino, con il sindaco Matteo Renzi, ma non disdegna di consigliarsi con gli esponenti di Pdl e Udc; a livello di Conferenza episcopale toscana invece il suo punto di riferimento, come delegato per la pastorale della salute, è l’Arcivescovo di Siena Colle Val d’Elsa Montalcino, Antonio Buoncristiani. Non è cambiato invece lo scopo, che è sempre quello di fare in modo che l’assistenza sanitaria venga considerata come parte integrante della cura dei malati. «Prendersi cura di una persona – afferma padre Renato – significa considerarla nella sua globalità, guardare non solo a una specifica malattia ma ai suoi bisogni più profondi, che comprendono le necessità spirituali». Anche nel rapporto medico-paziente, la dimensione religiosa è fondamentale.

Cappellani ospedalieri nella società scristianizzataLa presenza crescente di stranieri, di persone di culture e religioni diverse cambia questo scenario? «Il principio rimane lo stesso – afferma padre Ghilardi – semmai si tratterà, con il crescere delle richieste, di rispondere alle esigenze di tutti. Si tratta di aggiungere, non certo di togliere». Ma oggi, in una società scristianizzata, è più difficile fare il cappellano in un’ospedale? «Dipende da come ci si pone verso le persone: presentandosi con umiltà, con semplicità, si è sempre benvoluti. Anche chi dice di non credere, capisce che andiamo a portare un messaggio di amore e di speranza». Viene in mente un altro prete fiorentino, cappellano del carcere di Sollicciano, don Danilo Cubattoli, che diceva di essere «il prete di quelli che il prete non lo vogliono». È proprio così, sorride padre Renato, che «don Cuba» se lo ricorda bene, fin dagli anni del Seminario. «In ospedale ci passano tutti, ricchi e poveri, persone semplici e persone potenti: in questi trent’anni ne ho visti tanti. E quando sono qui, tutti si pongono tante domande e ascoltano anche parole che magari fuori non avrebbero ascoltato. Oggi che la Chiesa si interroga a fondo, giustamente, sulla necessità di una nuova evangelizzazione, dovrebbe tenerlo presente». Già: perché predicare il Vangelo e assistere i malati, ha ragione padre Ghilardi, sono due facce della stessa medaglia. La sanità toscana? «È sana, con alcune criticità»Mancano strutture intermedie tra ospedale e famiglia    l sistema sanitario in Toscana è sano»: padre Renato Ghilardi, che vive la sanità toscana dall’interno ormai da trent’anni, ci tiene a elogiare il buon livello dei servizi e delle cure offerte e degli operatori sanitari. Certo, ammette, non mancano alcune criticità, le stesse d’altra parte che si ritrovano in tutte le regioni. Tempi di attesa troppo lunghi per esami clinici, visite, ricoveri, interventi chirurgici. Ma il problema forse più urgente, afferma, è la carenza di «strutture intermedie» sul territorio tra ospedale e domicilio: i tempi di ospedalizzazione infatti si sono andati sempre più accorciando, facendo risparmiare molti soldi alle strutture ospedaliere ma facendo gravare spesso il peso sulle famiglie, che si ritrovano in casa persone ancora bisognose di assistenza. Proprio questa «integrazione» tra assistenza sanitaria e assistenza sociale, fra l’altro, dovrebbe essere l’elemento chiave del nuovo piano regionale che per la prima volta sarà un piano integrato socio-sanitario. Guardando alle persone, padre Ghilardi segnala le criticità ormai purtroppo ben note: anziani non autosufficienti, salute mentale, disabili, tossicodipendenti. Tipologie di persone per cui, ancora una volta, scarseggiano le strutture e la cui cura grava in gran parte sulle famiglie. A queste categorie si aggiungono anche gli immigrati e i carcerati: anche l’assistenza sanitaria nelle carceri infatti è passata, di recente, in carico al Servizio sanitario regionale che si trova così a fronteggiare la situazione carceraria di cui sono purtroppo ben noti i disagi. «Anziani fragili»: quaranta progetti realizzati da diocesi, parrocchie, misericordieLa pastorale della salute oggi non si può fare solo negli ospedali. Questo perché i ricoveri ospedalieri sono sempre più brevi, e i luoghi dove si incontrano disagio e sofferenza sono spesso le case. Famiglie che assistono una persona malata, anziani soli e bisognosi di cure. Oppure le piccole strutture diffuse sul territorio: case famiglia, residenze assistite…

Il compito di assistere i malati, afferma padre Ghilardi, non può quindi essere lasciato ai cappellani ospedalieri: ogni parrocchia deve prendersi cura dei suoi malati, andarli a visitare e ad assistere nelle case, nelle strutture di cura, in carcere… Un compito che deve coinvolgere i parroci ma anche i laici. Come già avviene spesso, ad esempio, con i ministri straordinari della Comunione che portando l’Eucaristia portano anche a tante persone un sorriso e una parola di conforto.

In questo spirito è nato anche il progetto per «azioni congiunte nei confronti degli anziani fragili» che ha visto, nell’arco dell’ultimo anno, la collaborazione tra le Diocesi e la Regione. Un progetto che, da un lato, mira a far crescere l’assistenza domiciliare ad anziani che sono ancora autosufficienti, ma che hanno bisogno di tanti piccoli servizi, proprio per prevenire la necessità di un ricovero in strutture assistite. Dall’altro, ha anche l’obiettivo di far sviluppare in maniera più strutturata quella miriade di iniziative che parrocchie, associazioni, realtà del mondo cattolico portano avanti.

In questo primo anno (il protocollo di intesa scade proprio in questi giorni, anche se è già attivo l’iter per il suo rinnovo) i progetti presentati sono stati 40, gli enti che hanno partecipato sono stati 39. Tra questi 4 diocesi, che hanno raccolto in un unico progetto le attività di diverse parrocchie e organismi diocesani: Pisa, Lucca, Grosseto, Siena. 25 invece le parrocchie che si sono presentate singolarmente: 9 quelle della diocesi di Firenze, 5 a Prato, 3 nella diocesi di Pitigliano – Sovana – Orbetello, 2 ciascuna a Volterra, San Miniato e Fiesole, una parrocchia per Arezzo, Livorno (il cui progetto però coinvolge anche altre comunità) e Pistoia. Dieci, infine, anche le confraternite di Misercordia che hanno presentato progetti (spesso coinvolgendo anche parrocchie e Caritas del territorio): 6 dell’area fiorentina e una ciascuna per Fiesole, Lucca, Prato e San Miniato. 31, in tutto, i comuni coinvolti, dai capoluoghi di provincia a realtà periferiche come Reggello, Castelfiorentino, Vernio o Pomarance.

Molto diversificati anche i servizi offerti e le attività svolte. Dai punti di ascolto all’attività fisica, laboratori, centri diurni, soggiorni climatici, mense, gite, servizi a domicilio (compreso il servizio mensa). Curioso, ad esempio, il progetto presentato dalla diocesi di Grosseto, su un territorio che conosce un invecchiamento della popolazione più rapido che in altre zone. Un’iniziativa mirata a combattere la solitudine, ma anche a mantenere attive le persone attraverso un laboratorio ricreativo e di socializzazione nella parrocchia di Scarlino: alcuni operatori hanno aiutato gli anziani a sviluppare memoria e capacità logiche attraverso giochi e piccole attività. A Firenze invece uno dei progetti più ampi e articolati è quello della parrocchia di Santa Maria al Pignone, il cui centro anziani offre animazione, ginnastica dolce, laboratori creativi (maglia, uncinetto, pittura) e la mensa, con tanto di servizio di trasporto per gli ospiti. Non mancano le feste di compleanno, le uscite ai giardinetti, l’incontro con i bambini del catechismo ben felici di ascoltare le storie dei «nonni». Altro esempio interessante, quello presentato dalla diocesi di Pisa per la struttura diocesana di Pontasserchio dove oltre alla casa famiglia e al centro diurno ci sono laboratori e una piccola palestra: il progetto è servito proprio a sviluppare (in collaborazione con il Csi e con 4 parrocchie della zona) attività fisica per anziani e disabili. Tra le altre iniziative poi anche l’attivazione di interventi di «buon vicinato» per sbrigare piccole commissioni, fare la spesa o comprare le medicine in farmacia.