Vita Chiesa

«Per la Chiesa è un momento di frontiera». Liturgia e vita, cosa abbiamo imparato?

Nel momento in cui riprendono le Messe con il popolo, possiamo cogliere l’occasione per riflettere su cosa rappresenta l’Eucaristia nella vita della Chiesa?«L’Eucaristia, assieme al sacro ministero, è il dono grande che il Signore ci ha lasciato sapendo che era ormai giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre. Proprio l’evangelista Giovanni nel discorso sul Pane della Vita ci ricorda: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. La vita della Chiesa è fondata sull’Eucaristia che segna il suo costante ritmo. Pertanto la celebrazione domenicale in modo particolare deve riassumere il suo significato autentico: non si tratta di assolvere a un precetto ma prendere coscienza che senza il cibo del Signore non è possibile vivere». Cosa ci ha insegnato questo tempo di «digiuno eucaristico»?«Questo tempo di forzato “digiuno” deve aiutarci a riscoprire almeno due aspetti fondamentali. Il primo è legato all’amore di Dio che ci convoca per ascoltare la sua Parola e per accogliere questa Parola nei segni sacramentali del Pane e del Vino che ci trasformano nel Corpo e nel Sangue del Signore e questo non per una inutile ritualità ma per il vivere quotidiano. Non a caso la costituzione sulla Chiesa del Vaticano II definisce l’Eucaristia “fonte e culmine della vita cristiana”. Questo deve aiutare i credenti a riscoprire l’aspetto più profondo del mistero celebrato: “Un effetto essenziale della Comunione eucaristica è la carità che deve penetrare la vita sociale. Il Concilio Vaticano II e il Papa Paolo VI hanno parlato della diversificata presenza di Cristo: bisogna aiutare i cristiani a cogliere che cosa significhi per la fede la connessione tra Cristo nell’Eucaristia e Cristo presente nei loro fratelli e sorelle, specialmente nei poveri e negli emarginati della società” (Sinodo dei vescovi 2005). Ecco perché la celebrazione domenicale, ma anche feriale, non è né l’assolvere a un precetto né una pia pratica.Il sinodo del 2005 sottolinea anche l’altro aspetto dell’Eucaristia: incontro e comunione di fratelli. La dimensione orizzontale della celebrazione non può essere disgiunta da quella verticale. L’Eucaristia è comunione di fratelli che vivono la fede nel Signore e che nell’agire quotidiano rendono conto del mistero che celebrano davanti al mondo realizzando la carità e la comunione con gli uomini, che la celebrazione esige per sua natura, perché è proprio questo mistero a generarla. Allora si può meglio comprendere la costituzione sulla Liturgia che al n. 11 definisce appunto la liturgia quale “culmine e fonte” della vita della Chiesa: culmine della carità vissuta nell’incontro con i fratelli, nel lavoro, nella famiglia e in qualunque altra esperienza umana, e fonte per tornare a vivere la medesima carità».Il protocollo stabilito per la riapertura delle celebrazioni liturgiche alla presenza dei fedeli è stato frutto di una intesa tra Stato e Chiesa. Una decisione quindi che rispetta lo spirito della Costituzione e del Concordato: reciproca autonomia, ma anche collaborazione per il bene del Paese. Un modello da tenere presente, anche per scelte future?«Sicuramente che il protocollo stabilito rispetti l’autonomia e la collaborazione tra lo Stato e la Chiesa, è indubbio. Il percorso non deve essere stato semplice e piano, anche perché le ragioni dello Stato e della Chiesa non sempre sono identiche. Si può accettare o criticare il documento – come in fondo si sente da molte parti – ma sicuramente oggi, dal mio punto di vista si presenta come esperienza di dialogo, che certo può e deve essere rinnovato, tenendo presente che il Cattolicesimo non è più la religione dello Stato e che oggi diverse confessioni e fedi comunque intervengo in questo dialogo. Realtà che la Chiesa cattolica deve costantemente tenere presenti proprio per quel dialogo ecumenico e interreligioso, che al di là dei rapporti con lo Stato, sta procedendo ormai da molto tempo. Concludo: il modello non è il documento, ma la metodologia che lo ha portato alla luce, cioè un dialogo libero e paritario che solo può garantire l’autonomia e la collaborazione».In questi giorni abbiamo visto modi nuovi di vivere la Chiesa: la famiglia come «Chiesa domestica»”, l’importanza della preghiera personale, l’uso delle nuove tecnologie per mantenersi in contatto, per condividere la preghiera o la lettura della Parola di Dio. Anche i preti hanno scoperto nuovi modi per svolgere il loro ministero. Questo può aiutare anche a ripensare la Chiesa?«Qualche giorno fa i vescovi italiani hanno ricordato che in questi giorni di quarantena è nato il nuovo millennio e questo sicuramente esige una vera rivoluzione copernicana all’interno delle comunità. Lo sforzo – che credo buona parte del clero deve fare – è comprendere che è urgente cambiare il “linguaggio”. Il Vaticano II aveva dato le linee guida, che nella maggior parte dei casi son restate lettera morta. Poche le realtà che hanno utilizzato in modo innovativo quelle realtà che oggi abbiamo a disposizione. I mezzi offerti dalle nuove tecnologie, che devono esprimere un linguaggio nuovo di comunicazione, sono indispensabili non solo nei tempi di quarantena, ma anche nell’ordinario della vita ecclesiale. Posso dire a ragion veduta che all’inizio è faticoso adattarsi, ma nell’uso se ne comprende l’utilità pastorale. Il rischio potrebbe essere quello di utilizzare tecniche nuove conservando linguaggi vecchi». Abbiamo visto in molti casi anche mettere in pratica quella «ministerialità» dei laici di cui nella Chiesa si parla da tanto…«La ministerialità domanda la valorizzazione delle persone riconoscendo a livello ecclesiale i talenti ricevuti. Non si tratta di promozione di alcuni membri del popolo di Dio, ma di riprendere in seria considerazione non solo il pensiero paolino sul corpo e la sua armonia ma anche quanto si legge negli Atti degli Apostoli per l’elezione dei diaconi. Una Chiesa che non vive la ministerialità è un corpo atrofizzato, incapace di generare vita nuova». Come mettere a frutto tutto questo?«Ora dobbiamo fare nostra la spinta di Papa Francesco, cioè dobbiamo diventare una Chiesa in uscita. Le nostre vecchie chiese risultano luoghi abbastanza ammuffiti. Non è più tempo di aspettare che gli uomini vengano, si deve comunque uscire per incontrare, per apprendere nuovi linguaggi che sostituiscano gli antichi stereotipi ormai incomprensibili. Siamo in un momento di “frontiera”: o si resta arroccati alle nostre ataviche convinzioni e ai nostri modi di espressione sicuri per alcuni di noi, ma incomprensibili per la maggioranza, oppure si varca la “frontiera” imparando a scoprire un mondo che ci circonda, che non corrisponde alle nostre aspettative, che ribalta le nostre sicurezze. Questo credo domandi profonda umiltà e capacità di ascolto».