Vita Chiesa

San Francesco: card. Betori, la pienezza della santità sta nella completa adesione alla persona di Cristo

Di seguito il testo dell’omelia proclamata stamattina dal cardinale Giuseppe Betori

Per lasciarci illuminare dalla testimonianza che san Francesco ci offre, occorre contemplare il compimento del suo cammino di santità, quella sua piena conformazione a Cristo, che trova espressione corporea nelle stigmate, che egli ricevette nella nostra terra, a La Verna, un dono a cui la liturgia applica le parole dell’apostolo Paolo: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). La pienezza della santità sta nella completa adesione alla persona di Cristo, fino all’accoglienza della sua Croce nella nostra vita, riconoscendo in quel gesto di totale svuotamento di sé, come direbbe ancora l’apostolo – «Cristo Gesù… svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo,… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,5-8) –, il modo con cui Dio ha voluto svelarci la profondità del suo amore. Lo chiarisce ancora san Paolo nel testo della lettera ai Galati: «Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6,14). 

In un mondo che rifiuta la fragilità, un mondo in cui la morte non viene riconosciuta come il limite della vita ma come la via d’uscita di cui disporre a piacimento per sfuggire alla fatica, nostra e degli altri, a farcene carico, è difficile scorgere nel Crocifisso l’appello alla partecipazione alle sofferenze dell’umanità tutta, soprattutto di quanti sono rifiutati e disprezzati. Ed è pure evidente la fatica dell’uomo contemporaneo a riconoscere che la vita possa scaturire solo dal sacrificio, che il frutto nasce da un seme che si lascia macerare nella terra, che la vita, vissuta fino alla morte come dono di sé, è capace di rigenerare il mondo, risorgere a vita nuova. Tutto questo è invece chiaro agli occhi di Francesco che proprio dall’incontro con il Crocifisso nella chiesetta di San Damiano trae la ragione per cui, come dice il suo primo biografo, egli «decise di disprezzarsi sempre più» (Tommaso da Celano, Vita prima, VII, 17). Inizia così la via della croce per Francesco e su di essa dà forma all’intera sua vita, che alla Verna trova compimento, l’evento che suggella la vita del santo secondo il nostro Sommo Poeta, di cui ricordiamo il settecentesimo della morte: «nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno» (Par. XI, 106-108).

San Bonaventura, a sua volta, così descrive la rivelazione della Verna: «Provava letizia per l’atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo, sotto la figura del serafino; ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima con la spada dolorosa della compassione» (Leggenda maggiore, XIII, 3). Stare sotto lo sguardo di Cristo e al tempo stesso lasciarsi trafiggere, trasformare dal suo amore, in virtù di uno slancio di compassione che ci fa tutt’uno con la compassione del Signore, cioè con la sua volontà di salvezza dell’uomo. Ma per giungere a questo vertice, tra i due sguardi contemplativi di San Damiano e della Verna, sta un cammino di umiliazione di sé che san Francesco compie con Gesù e come Gesù, accogliendone la parola che abbiamo ascoltato nella pagina evangelica: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29), parole che Dio, il Padre, ha voluto che fossero rivelate «ai piccoli» (Mt 11,25).

L’invito a essere piccoli – una condizione umana e spirituale strettamente collegata nel vangelo alla povertà, alla mitezza e all’umiltà – viene assunto da san Francesco nel collocare sé stesso e i suoi compagni nella posizione dei minori, una categoria che, senza perdere il suo carattere propriamente sociale, si arricchisce nella visione francescana di una dimensione tipicamente religiosa, in cui si riflette il riconoscimento della nostra condizione di creature. La minorità francescana, umana e spirituale insieme, diventa poi anche marginalità nel momento in cui Francesco frequenta i marginali, i lebbrosi. Essere piccoli, minori, marginali è una comprensione della vita in cui si uniscono dimensioni spirituali e sociali, secondo una visione incarnata della fede che fatica purtroppo a diventare convinzione condivisa tra noi, stretti come siamo tra le fughe spiritualistiche e le riduzioni socializzanti del vangelo. Essere piccoli, minori, marginali, cioè tutto il contrario delle pretese dell’uomo moderno, che si vuole adulto, autonomo, autosufficiente, uscito per l’appunto dalla minorità. Ma ben conosciamo a quali rovine di decomposizione sociale e di frustrazione personale conduce questa pretesa di libertà senza confini e di una ragione che si fa assoluta. Tutto a prezzo della perdita di significato e soprattutto di speranza e quindi di responsabilità. 

Eppure, l’esperienza della pandemia dovrebbe indurci a rivedere quella categoria magica a cui si affida tanta cultura contemporanea, e che ispira anche proposte di scelte legislative preoccupanti, cioè la rivendicazione dell’assoluta autodeterminazione, nella convinzione che la libertà possa esercitarsi a prescindere dalla relazione e dimenticando la responsabilità. Ho fatto riferimento alla pandemia perché proprio in questo contesto emerge sempre di più che l’autodeterminazione individuale deve confrontarsi con la responsabilità sociale se non vuole nuocere a sé e agli altri. E se questo vale per un vaccino, perché non dovrebbe valere per l’omicidio del consenziente, con cui ci si libera dal farsi carico della sua sofferenza, o per la liberalizzazione di una sostanza in grado di recare danno alla consapevolezza di sé e al controllo delle proprie azioni? Ma ciò che conta nella condizione del piccolo e del minore non è la condizione stessa, bensì l’essere destinatario del dono di Dio, della rivelazione della verità e della partecipazione della misericordia. Certo occorre uno spazio di disponibilità, che solo il povero sa esprimere: chi pensa già di sapere, chi ritiene già di possedere, chi già presume di essere, chi vuole decidere a prescindere, non può accettare il «giogo […] dolce e […] leggero» (Mt 11,30) di una parola che salva. Da ultimo, non possiamo dimenticare che questo cammino non ha un carattere puramente individuale, ma è elemento costitutivo di vita di una comunità. Lo ha richiamato la prima lettura con l’immagine del sommo sacerdote che ricostruisce il Tempio, immagine che la liturgia riferisce a san Francesco come colui che risana la Chiesa: «Francesco, va’, ripara la mia casa che come vedi, è tutta in rovina», gli aveva detto il Crocifisso a San Damiano (Tommaso da Celano, Vita seconda, VI, 10). Il gesto materiale della ricostruzione della chiesa di San Damiano, poi di quella di san Pietro e infine di quella della Porziuncola, era per Francesco simbolo di quell’opera di riedificazione della Chiesa di Cristo che, come annota San Bonaventura, «lo Spirito Santo gli avrebbe fatto capire e come egli stesso rivelò in seguito ai frati» (Leggenda maggiore, II, 1). Con le parole di Dante: «[…] mantener la barca di Pietro in alto mar per dritto segno» (Par. XI, 119-120). Anche oggi abbiamo bisogno di porre mano al rinnovamento della Chiesa, a raddrizzarne la rotta nel mare della storia, a darle un volto rinnovato, su cui il Vangelo risplenda con evidenza e credibilità davanti al mondo. Lo chiede il Santo Padre e ce ne indica la modalità invitando la Chiesa italiana a un Cammino sinodale, in cui generosamente disporci al dialogo reciproco nell’ascolto dello Spirito. Un Cammino che deve avere come prima esigenza la nostra conversione a Cristo. 

Incentrare la propria esistenza in Cristo, unica verità, è questo il segreto del rinnovamento della Chiesa che Francesco indica con la sua conversione e la sua vita. Scrive Tommaso da Celano: «La prima opera cui Francesco pose mano, appena libero dal giogo del padre terreno, fu di riedificare un tempio a Dio. Non pensava di costruirne uno nuovo, ma restaurò una chiesa antica e malridotta; non ne scalzò le fondamenta, ma edificò su di esse, lasciandone così, senza saperlo, il primato a Cristo. Nessuno infatti potrebbe creare un altro fondamento all’infuori di quello che già è stato posto: Gesù Cristo» (Vita prima, VIII, 18). Quanta sapienza evangelica e chiarezza teologica in un semplice gesto! Non una nuova Chiesa, ma l’unica Chiesa di sempre, fondata non su una nostra costruzione ma su Gesù Cristo, rifondando cioè la vita di ciascuno di noi su Gesù Cristo! Questo insegnamento di san Francesco sia luce per le nostre comunità nel Cammino sinodale che ci attende. 

Giuseppe card. Betori