Vita Chiesa

Una folla commossa ai funerali di Savio

di Bruno D’AvanzoMercoledì trenta marzo, ore 10. Al di là del filo del telefono sento una voce rotta dal pianto: «Vincenzo è morto. I funerali sono venerdì a Belluno, alle quindici, in cattedrale». Vincenzo Savio, salesiano, vescovo di Belluno, non c’è più. Un male che non perdona. Una morte annunciata da tempo. Un calvario di diciassette mesi vissuto in pubblico, con coraggio, con dignità. Ricordo ancora con emozione quando l’ho sentito l’ultima volta, per telefono. Era stanco, ma sempre sereno. Faticava a parlare: «Sai, Bruno, vorrei vivere per fare ancora tante cose, ma se il Signore mi chiama, io sono pronto».

Parto per Belluno con la comunità dei salesiani di Firenze. Il ricordo di Vincenzo, ancora così vivo e bello, che ci accomuna tutti, determina fra noi un’atmosfera familiare e serena. Non sembra proprio di andare a un funerale. Lui avrebbe voluto così, ne sono sicuro.

Ho conosciuto Savio nel 1987, quando venne a Firenze, su richiesta dell’arcivescovo Silvano Piovanelli, per promuovere il Sinodo diocesano. E Vincenzo Savio riesce a mettere in moto un processo che avrà un grande peso nell’evoluzione successiva della Chiesa fiorentina. La comunità ecclesiale di Firenze vive in quegli anni un cammino di rinnovamento che forse ha proprio nel Sinodo il suo momento più significativo. E qui il ruolo di don Savio è determinante. A partire dal 1987 per alcuni anni consecutivi decine di migliaia di cattolici fiorentini, per la prima volta dopo l’epoca del Concilio, si incontrano a piccoli gruppi, leggono e commentano il Vangelo senza essere necessariamente guidati da sacerdoti, affrontano il problema di come vivere la fede oggi, fuori da un’impostazione verticistica e clericale. Si stabiliscono momenti di dialogo con i «cattolici del dissenso» dell’Isolotto che vengono invitati al Sinodo, si aprono spazi di comunicazione con gli evangelici e gli ortodossi, con la comunità ebraica, con associazioni impegnate nel sociale, anche di matrice culturale non cattolica. Nell’ambito del Sinodo Piovanelli, in sintonia con l’impostazione fortemente voluta da Vincenzo Savio, sostiene un progetto di riconversione delle fabbriche d’armi. Le linee del Concilio prendono finalmente corpo nella diocesi di Firenze. Ma Savio non è destinato a portare a termine l’opera iniziata. Quando il Sinodo non è ancora concluso viene chiamato prima a guidare un oratorio salesiano in Liguria, poi a Livorno per assumere la carica di vescovo ausiliare, accanto al titolare della diocesi Alberto Ablondi.

Nella città labronica,dove era stato per alcuni anni parroco prima di andare a Firenze, Vincenzo Savio mette in luce le sue brillanti doti di organizzatore, particolarmente attento alla realtà giovanile. È spesso presente fra gli operai, i portuali, i disoccupati, nei quartieri poveri della città. I giovani lo adorano. Anche i comunisti livornesi, anticlericali e mangiapreti, amano questo vescovo che gira in motorino, semplice e umile, ma ricco di una umanità eccezionale. Quando Ablondi, superati i settantacinque anni, non è più vescovo titolare di Livorno, a molti viene logico pensare che Savio debba essere il suo successore naturale. Non è così. La sua nuova destinazione è la diocesi di Belluno-Feltre, questa volta vescovo titolare.

«Ti hanno mandato al confino, Vincenzo?» Gli chiedo quando ricevo la notizia. Mi risponde serafico come al solito: «Al contrario, qui c’è tanto da fare!» E mi parla di quella gente veneta, laboriosa e seria, ma chiusa nel proprio guscio, di quel popolo montanaro da cui lui stesso proviene (era nato nelle prealpi bergamasche) che ha un gran bisogno di aprirsi sia dal punto di vista ecclesiale, sia sul versante sociale. Aprirsi agli immigrati, praticare l’accoglienza, sostenere i meno fortunati. Con questa carta da visita il nuovo vescovo si presenta alla cittadinanza della nuova diocesi. È una scommessa difficile e Savio la vince, alla grande. I montanari bellunesi superano quasi subito le iniziali perplessità verso questo vescovo così diverso la cui autorevolezza non nasce dal suo ruolo gerarchico; un vescovo che li conquista col suo fascino interiore che sprigiona simpatia, accoglienza, serenità; ma al tempo stesso con la sua esigente richiesta di vivere la comunione fraterna nella solidarietà. I tre anni che Dio gli concede di vivere come vescovo a Belluno non possono essere più intensi. Percorre in lungo e in largo la diocesi; promuove numerosi incontri con la cittadinanza cercando di capire le ragioni di tutti, ma soprattutto dei più umili, degli esclusi, dei disoccupati, dei malati.

Dopo un anno e mezzo il male comincia a farsi sentire, ma lui continua con una forza indicibile, fino all’ultimo. Non nasconde a nessuno la sua malattia, che lo distrugge nel fisico. Anzi, la sua forza d’animo di fronte al male diventa stimolo per tutti, Chiesa e società civile, a perseguire quegli scopi di giustizia e di solidarietà che sono insiti nel suo messaggio.

La Messa solenne che accompagna il suo funerale vede la presenza di migliaia di persone che si accalcano all’interno della cattedrale e ne presidiano il sagrato. Sono presenti decine di vescovi e cardinali e sono un’ottantina i sindaci, in rappresentanza di diocesi e comuni. Ma più di tutto colpisce l’atmosfera che si respira nella città. Tutto si ferma. Chiusi i negozi, i chioschi dei giornali, persino i bar. E i commenti della gente, toccanti. Molti lo accostano a papa Giovanni, bergamasco come lui, o a papa Luciani, bellunese, riguardo al quale proprio mons. Savio aveva aperto il processo di beatificazione.

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