Vita Chiesa

Venerdì Santo, la “Via Crucis” dei cappellani

I “veri eroi”, li ha definiti Papa Francesco. Insieme ai medici, agli infermieri e agli operatori sanitari sono loro a stare in trincea, accanto agli ammalati di coronavirus. Di solito dietro le quinte, pronti a servire nel silenzio, oggi vogliamo renderli protagonisti di una “Via Crucis” speciale, dislocata sul territorio, che affianca quella del Santo Padre questa sera, in una piazza San Pietro ancora una volta vuota. Le “stazioni” sono le sette parole di Gesù sulla croce, commentate dai cappellani – e da una caposala – degli Ospedali Covid sparsi sulla Penisola.

“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Delle ultime frasi pronunciate da Gesù sulla croce, la prima richiama pienamente il senso pieno della sua predicazione, della sua esperienza terrena fra gli uomini. Perdono, iper-dono, dono grandissimo, smisurato, che non solo rimette i peccati ma porta la salvezza, desiderio profondo di Dio per l’umanità ferita. La vera potenza di Dio sta qui, nel poter concedere il perdono. Gesù sulla croce fa un ulteriore concessione, giustificando coloro i quali lo hanno crocifisso, quelli che lo scherniscono e lo insultano, affidandoli al Padre perché non si rendono conto di quello che stanno facendo. Per superficialità e per egoismo non hanno accettato la rivelazione del vero volto del Padre. Il perdono, questo dono grande, immenso offerto anche a chi in teoria non sa che cosa davvero sia. Se è un dono, un iper-dono, non presume condizioni per essere donato.

Dobbiamo avvertire nel profondo del nostro intimo che abbiamo bisogno sempre di questo dono, che senza la misericordia di Dio non possiamo farcela da soli.

Dobbiamo accettare questa nostra fragilità umana per trasfigurarla in quel cammino di conversione quotidiano dove, riconoscendo il nostro peccato apriamo il cuore al pentimento e all’accoglienza di questo iper-dono che ci rigenera alla Grazia. (Frati minori cappuccini, cappellani ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo).

“Oggi sarai con me in Paradiso”. Con queste semplici ma potentissime parole di Gesù al ladrone divenuto buono, Egli ha scardinato la logica del male. Dice di un passaggio da un luogo che non ha nome, che evidentemente porta con sé la possibilità del male, a un luogo che ha un nome, Paradiso, e che quindi si fa conoscere e genera in noi quiete e sicurezza, nel quale la normale esperienza è il bene. E quando avviene il passaggio? Oggi, cioè nel momento in cui il ladrone sta soffrendo in un modo che forse ci è anche difficile immaginare.

Anche il nostro oggi di male può essere l’oggi della promessa di Dio. Gesù cambia la disgrazia in grazia. Ancora nel dolore la speranza può nascere, crescere e abitare, facendo sì che sofferenza del corpo e dello spirito, senso di solitudine e di abbandono, frustrazione, rabbia, perdita di dignità perché si è nudi e nelle mani di sconosciuti.

Il ladrone l’ha sperimentato così come anche Gesù; ma tutte queste cose appartengono normalmente al tempo della malattia e in modo sommo a quello di questa infezione, che è divenuta pandemica anche nel senso che è entrata in tutto l’uomo. Solo l’amore trasfigura, fa nascere il bene dal male, cioè fa Pasqua. Basta fare ciò che si deve con affetto e forza di rispetto e di custodia del valore altrui. E la storia della vita dell’altro non sarà sprecata o fallita… e forse anche la nostra”. (fra’ Giovanni Farimbella, cappello Spedali Civili di Brescia)

“ Donna, ecco tuo Figlio!…Ecco tua madre”. Parole che sembrano forti ma che nascondono una profonda angoscia: l’angoscia dell’abbandono. Tutte le relazioni costruite in una vita, le emozioni, le certezze e le paure che sono patrimonio di una madre e di un figlio risuonano in queste frasi.

Queste parole sono le stesse che vediamo negli occhi e che raccogliamo dalle labbra di uomini e donne che stanno lottando e sono allo stremo in questa pesantissima passione rappresentata da questa terribile malattia contro cui queste persone stanno combattendo affrontando l’ultima battaglia.

Quando il respiro si fa talmente faticoso e superficiale che non ti permette di finire le frasi e allora sono gli occhi, gli sguardi, le lacrime, le mani che ti stringono e che ti chiedono: ‘Mi sveglierò dottore ?… Li c’è il telefono avvisa lei i miei cari ?…Me li saluti…’. E tu stringi le mani fino a che queste non si rilasciano per effetto dei farmaci che li addormentano in un sonno senza sogni e che ti consegna l’essere umano per essere curato. I nostri occhi come quelli di Maria si riempiono di lacrime e li accarezzi dicendogli che farai di tutto proprio come se fosse un figlio, un padre, una madre, una moglie, una sorella, un fratello…e li affidi alla Sua misericordia. Come un genitore speri. Speri a volte nell’impossibile e se poi non riescono a farcela mani pietose li accudiscono per l’ultima volta e spesso piangendo li accompagni con la sola forza della preghiera all’incontro con il Padre. Ma alle volte li vediamo risvegliarsi, riprendersi, ricordarsi di dove e cosa sono e allora prendi il telefono componi il numero e tra le lacrime dici……’Ecco tua madre’”. (Claudio Savi, diacono, cappellano Policlinico di Milano)

“Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Quando veniamo richiesti di andare in un reparto di rianimazione, in questo tragico periodo di pandemia, ci sembra di udire nel nostro animo, come pronunciata nuovamente da Gesù, o risuonata negli occhi e nelle sofferenze del malato, quel grido che si eleva dalle nostre croci: “Dio mio, perché ci abbandoni?”. Forse l’ammalato, nelle gravi situazioni in cui si trova, nemmeno pensa più a Dio, sopraffatto dal suo dolore disperato.

Sono situazioni che ci fanno capire come nella dolorosa invocazione di Gesù sulla croce sia racchiusa l’unica preghiera possibile in certi momenti della nostra vita: la richiesta di aiuto a Dio Padre misericordioso.

Una richiesta gridata dall’ammalato nel modo che gli è possibile, con gli occhi spalancati; e invocata anche dai suoi cari, costretti alla lontananza da lui; non di rado anche espressa a fior di labbra da coloro che con competenza ed animo buono stanno cercando di salvargli la vita. In quei momenti, come sacerdoti, in spirituale unione con il sofferente, invochiamo con fiducia, per i meriti del crocifisso risorto: sollievo, conforto e amorevole perdono per quello che può essere stata debolezza, peccato o per essersi allontanati dal suo amore misercordioso. Spesso ci è permesso solo di fare una preghiera silenziosa, fatta anche di sguardi delicati e incoraggianti: “Chi soffre, Signore, si trova accanto a Te sulla Croce. Fa che la tua Croce sia non solo fonte di perdono, ma anche di speranza e di amore”. (Religiosi Camilliani, cappellani Azienda Sanitaria di Padova)

“Ho sete”. A Gesù ormai prossimo alla morte sulla croce e assetato, viene data una bevanda amara, inadatta a dissetare, una bevanda che è un ennesimo scherno. Ma qual è la vera sete di Gesù, poco prima di morire? E’ la sete di Dio. Solo dopo aver espresso questa sete di Dio, cioè la risposta amorosa dell’uomo, Gesù compie definitivamente la sua missione.

Ecco la sete di Gesù: che l’uomo risponda all’ appello! E lo faccia con e per amore! L’appello all’amore vero, non quello finto; al Bene, non al male; alla vita, non alla morte; alla condivisione, non al consumo; alla fraternità non all’avversione.

Nell’esperienza della malattia in particolare, i nostri familiari, parenti, amici, specie quando si trovano nell’ultima ora, mentre sta per compiersi la propria vita, ci insegnano e ci chiedono tutto questo. Ci chiedono non di guarirli miracolisticamente: lo sanno che sono malati e che la morte fa parte della vita. Ci chiamano ad amarli, star loro accanto, tener loro la mano, accarezzarli parlando loro, anche se non possono ascoltare o capire. Ci chiedono di portare pace, unità, reciproca armonia. Ci chiamano a promettere loro che continueremo noi quanto di bello e buono hanno detto e fatto nella loro vita, anche perché in questa maniera continueranno a vivere attraverso di noi. Ci chiamano a credere che non muoiono in eterno, ma sono…. in cammino verso quell’appello di Gesù e di Dio: “ho sete”. (don Pasquale Dello Iacovo, cappellano Ospedale Sant’Andrea, Roma)

“Tutto è compiuto”. Quando ci si ritrova inermi di fronte alla violenza assurda, alla malattia incurabile, alla sofferenza imminente, alla morte Gesù, in quanto uomo,  ha voluto far propria e vivere sulla propria pelle tutta l’angoscia, l’abiezione, le paure dell’uomo di tutti i tempi, per poterla redimere. Proprio e solo quando arriva in fondo al tunnel della sofferenza, dell’angoscia e della solitudine Gesù ritrova Dio, quale Padre amoroso e gli grida con tutte le energie rimaste:”Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”, e aggiunge con l’ultimo afflato: “Tutto è compiuto” Non poteva esserci un’agonia umanamente più desolante e di totale annullamento di sé. Perciò ogni uomo, credente o ateo che sia, che soffre o che muore nel silenzio di Dio e nell’abbandono, può non essere disperato: non è più solo, perché Cristo, per lui e con lui, ha vissuto la susa stessa tragica esperienza. (padre Timoteo D’Addario, cappellano Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo)

“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Signore, tu guidi le nostre mani affinché accolgano le persone malate, le fai tue strumenti affinché ci possiamo prendere cura di loro. Con le nostre mani diamo loro conforto perché non si sentano troppo lontani dai loro cari.

E quando le nostre mani non riescono a trattenere le loro fragili vite, noi le affidiamo a Te. È nelle Tue mani, Padre, che consegniamo i nostri sforzi, le nostre fatiche, le nostre speranze, le nostre sconfitte le nostre gioie. È nelle tue mani, Padre, che consegniamo lo spirito delle persone che se ne vanno… insieme alle nostre lacrime e a quelle di chi le ha amate.

Così come hai fatto tu Gesù, nostro Signore, che quando hai compiuto tutto ciò che eri venuto a compiere sulla terra ti sei abbandonato e hai consegnato, fiducioso, tutto te stesso nelle mani del Padre! Aiutaci, Gesù, ad affidarci e ad affidare sempre i nostri fratelli e sorelle nelle mani del Padre… (Paola Sonzogni, caposala terapia intensiva ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo)