Vita Chiesa

l digiuno, allenamento spirituale, ci può aiutare a riconoscere la vera fame

«Beato chi ha fame» (Cfr. Mt 5,6). Sfogliando le pagine della Sacra Scrittura ci accorgiamo che digiunano i profeti, digiunano i sacerdoti, digiunano coloro che sono chiamati a conversione, digiunano gli apostoli per rafforzare preghiera e discernimento prima di atti importanti, e come loro, tutti quelli che cercano un contatto particolare con Dio per comprenderne la volontà. E digiuna Gesù, che dopo quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. (Cfr. Mt 4,2)C’è da chiedersi di quale fame si tratti: certamente l’astensione dal cibo mette in condizione di sentire e voler soddisfare il bisogno primario di mangiare. Ma in questo bisogno naturale, quando l’organismo perde energia e sente la vita venir meno, si ridimensionano tanti «appetiti sregolati». E si riordinano valori e priorità, nella rinnovata consapevolezza che la vita è un dono. Stiamo dunque esaminando gli effetti di una rinuncia che non interessa il «superfluo» di cui possiamo ordinariamente fare a meno, ma il «necessario».Questo processo Gesù lo vive nel deserto, luogo simbolico in cui non solo si soffrono fame e sete, ma anche solitudine, precarietà, pericolo: un luogo che evoca un cammino di ricerca per un incontro, per raggiungere una terra promessa, per liberarsi da ciò che rende schiavi. Sant’Agostino ci ricorda che il Signore volle prefigurare noi, che siamo il suo corpo mistico, nelle vicende del suo corpo reale, nel quale Egli fu tentato: «Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la sua morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria; dunque, prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria» (S. Agostino, Commento sui salmi).Un cammino spirituale, un vero allenamento per conquistare attitudine, capacità, forza: proprio come un atleta chiamato a migliorare flessibilità, postura, tonicità in vista di una prestazione sportiva. Gli atleti sono disposti a privarsi di tutto ciò che potrebbe impedire loro una buona prestazione in gara. Loro per vincere, noi per fede, per accogliere la vittoria ottenuta da Cristo. Quando Gesù ebbe fame, il tentatore offrì pane, sì, ma anche vanagloria: guardiamo in profondità la nostra fame, perché siamo tutti «appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, e il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l’amicizia con il Signore». (Benedetto XVI, Messaggio della Quaresima, 2009). Il nutrimento indispensabile della parola che esce dalla bocca di Dio, ci permette di vivere la realtà di noi stessi e di recuperare la somiglianza col Padre: «se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore “di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”, con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia». Ebbene, come ci raggiunge la Parola di Dio che descrive questo cammino di Gesù all’inizio del tempo quaresimale? Come risuona oggi la parola «digiuno»? Forse richiama principalmente un benessere materiale, una scelta terapeutica, un percorso di «conformità» ai modelli che la società ci propone. Ma per noi credenti, cosa significa e come lo pratichiamo? Come una terapia per l’anima che ci rende più conformi al desiderio e al progetto di Dio per noi? Riusciamo davvero almeno a far memoria di quanto lo stesso san Paolo maturò nella sua esperienza di ricerca e privazione, ovvero, la necessità e bellezza di non essere più lui a vivere, ma Cristo in Lui, Cristo, Colui che ha dato la vita per noi? Perché il digiuno permette di vivere ancor più intensamente l’amore che Egli ebbe fino alla fine, cioè, totale! E questa donazione totale è richiesta anche a noi, «figli disordinati e frammentati in loro stessi».Il digiuno è una pratica penitenziale che armonizza e unifica i frammenti e sostiene il nostro cammino di verità e libertà, di ascolto, di richiesta di perdono, di apertura del cuore – anche al fratello che non sceglie, ma subisce il non assumere cibo – di solidarietà, quindi, di carità. San Pietro Crisologo sottolinea che «Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica» (Sermo 43: PL 52, 320. 332). Questo è il «peso» sulla nostra bilancia, per riconoscere che la nostra fame è fame di Dio. Non ci è così difficile trovare giustificazioni al non poter digiunare nei giorni in cui la Chiesa esorta a farlo: salute, lavoro, famiglia… facilmente spostiamo l’attenzione ad altro e perdiamo la possibilità di un incontro… di un’educazione del desiderio che ci porta oltre ciò che abbiamo la presunzione di possedere e controllare. Perdiamo la possibilità di rinvigorirci come amministratori dei beni del Signore, di vivere la beatitudine di coloro che sono affamati di giustizia. E di sperimentare la vera consolazione. «Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d’origine, i cui effetti negativi investono l’intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: “Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti”» (Benedetto XVI, Messaggio della Quaresima, 2009). Attenti e capaci di utilizzare bilance analitiche per verificare le minime vibrazioni e oscillazioni di peso verso la salvezza o la condanna.*Carmelitana