Quando l’aereo esplose contro la prima torre dello World Trade Center, alle nove e tre minuti dell’11 Settembre 2001, pensai a un incidente. A un piccolo aereo sbandato che aveva perso la rotta. Mentre le immagini cominciavano a essere trasmesse sulla Cnn, l’impatto del secondo aereo dette la certezza che si trattasse di qualcosa di maledettamente diverso. Forse un attacco terroristico. All’epoca guidavo la redazione della Nazione di Lucca.
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Di quel pomeriggio dell’11 settembre 2001 ricordo bene ogni minuto. «Interrompiamo il programma ‘la Melevisione’ per una breve edizione straordinaria del Tg3». La voce dell’annunciatrice della Rai entrò nella penombra del salotto dei miei nonni, come fece nelle case di altri milioni di italiani.
È sabato mattina 27 agosto a New York, Roberto ha appena finito di lavorare per un cliente e ci sentiamo grazie a whatsapp, lui è in macchina: «Ho 55 anni, sono in America dal 10 luglio 1992. Mi sono laureato a Firenze in Ingegneria elettronica, al S. Marta, nel 1991. Ora sono un imprenditore, offro consulenze informatiche a ditte, italiane e non solo, qui in America».
Il giorno dopo l’undici settembre di venti anni fa Le Monde se ne uscì con un titolo significativo: «Siamo tutti americani». E all’inizio la solidarietà agli Usa per il rogo delle Torri gemelle dove sono morti quasi tremila americani è quasi universale. Perfino governi islamici radicali come quello dell’Arabia Saudita e della Libia condannano l’attentato.
L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 è stata una “tragedia” che “ci ha uniti nel segno del dolore”. Lo dichiara il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001.
Il giorno che gli Stati Uniti hanno perso la guerra più lunga che abbiano mai combattuto, e la più costosa, ci sono state, specie nell'America più profonda – a Washington, sono «scafati»: sapevano che stava per andare a finire così -, momenti di sorpresa e di incredulità: come poteva succedere?, come poteva essere successo?
Un ventennio aperto dal crollo delle torri gemelle, che si chiude con la presa del potere dei Talebani in Afghanistan. Un tempo di scontri, ma anche di gesti importanti come quelli compiuti da papa Francesco. Padre Antonio Spadaro, gesuita, direttore de «La Civiltà cattolica», è una delle persone che segue più da vicino il Papa. E la sua lettura di questo ventennale è che bisogna lavorare per l’icontro e il dialogo. «Anche se tutto sembra dire il contrario».
L’annuncio ufficiale sarà dato sabato 24 aprile, giorno in cui si commemora il 106° anniversario dell'inizio dello sterminio del popolo armeno. Gli Stati Uniti – per decisione del presidente Joe Biden - si uniscono ai 29 Paesi che nel mondo riconoscono il genocidio armeno. In Italia, nel 2019, la Camera dei deputati approvò una mozione di riconoscimento e nel 2015, papa Francesco, riferendosi agli avvenimenti, parlò esplicitamente di genocidio, termine che ebbe il coraggio di ripetere, anche l’anno dopo, durante il suo viaggio in Armenia
Viaggio in Iraq, giornalismo cattolico e Chiesa negli Stati Uniti. Sono stati questi gli argomenti principali del colloquio privato tra Papa Francesco e la delegazione dell’agenzia cattolica statunitense Catholic News Service (Cns), ricevuta in udienza oggi in occasione del loro 100° anniversario. A riferirlo è lo stesso Cns.
“In un’epoca in cui le notizie possono essere facilmente manipolate e la disinformazione è diffusa, voi cercate di far conoscere la verità in un modo che sia, secondo le parole del vostro motto, giusto, fedele e informato”. È quanto scrive il Papa, nel testo consegnato alla delegazione del “Catholic News Service” della Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America, ricevuta in udienza in occasione del centenario della sua istituzione
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