Cultura & Società

Economia, il contributo della «Caritas in veritate»

di Luigi Cappugi

Anche se è stata pubblicata nel pieno della più grande crisi economica attraversata dall’intero pianeta dalla fine della seconda guerra mondiale, lo scenario di riferimento della Caritas in veritate va ben oltre il dato contingente, confrontandosi con i grandi fenomeni degli ultimi decenni:

 – in primo luogo il processo di globalizzazione che ha investito prepotentemente l’economia mondiale con il supporto determinante delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione;

 – un processo che ha interessato il mercato dei beni e dei prodotti, sostenuto dalla spinta alla liberalizzazione della circolazione non solo delle merci, ma anche delle persone e soprattutto dei capitali, di modo che la cifra di lettura della globalizzazione in questa fase storica è principalmente quella finanziaria;

 – le spinte in direzione della finanziarizzazione dell’economia sono state talmente potenti da travalicare gli argini già abbastanza ridotti della regolamentazione esistente, di modo che il processo di creazione di ricchezza mediante altra ricchezza, attraverso sofisticati strumenti giuridici ed economico-finanziari, ha finito per autoalimentarsi sfrenatamente senza più alcuna correlazione con la cosiddetta economia reale dei prodotti e dei bisogni, fino a giungere a un punto di non ritorno tale da condurre l’intera economia mondiale alla catastrofe sfiorata alla fine del 2008 e alla grande recessione del 2009;

 – lo sviluppo prodottosi lungo queste linee, pur avendo coinvolto Paesi che fino a pochi anni fa non appartenevano al novero delle grandi economie avanzate, esemplare in questo senso la Cina, ha tuttavia accentuato le disuguaglianze in primo luogo con quelle fasce di Paesi che per varie ragioni ne sono stati esclusi, ma anche all’interno dei Paesi sviluppati, riducendo le tutele per i più deboli e allargando le zone di povertà, di modo che, se si può genericamente affermare che il mondo è diventato più ricco, sarebbe azzardato sostenere che sia diventato più giusto;

 – ulteriore elemento dello scenario è l’aggressione che questo tipo di sviluppo ha condotto nei confronti del pianeta e delle sue risorse per effetto di una logica dell’arricchimento a tutti i costi, nel più breve tempo possibile e il più possibile, che mette a rischio il benessere delle generazioni future, con una riduzione netta degli spazi di solidarietà.

Per certi verso lo scoppio della crisi può essere interpretato come una reazione di difesa del sistema socioeconomico mondiale nei confronti di un’infezione che l’avrebbe portato verso un fallimento irreversibile.

Comunque è certo che il problema non è soltanto di tipo tecnico, risolvibile con migliori regole e controlli, pure indispensabili, ma è intimamente connesso alla filosofia che sta alla base dell’agire economico e dei criteri che lo ispirano.

È proprio su questo punto che la Caritas in veritate si applica in termini profondamente innovativi:

 – essa non si riduce, a fare una sorta di predica morale a un’economia che segue le sue leggi inconfutabili e tutt’al più lascia spazio a un sentimento del tutto accessorio di compassione vuoi per tacitare qualche soprassalto di coscienza vuoi per migliorare la propria immagine presso l’opinione pubblica;

 – in realtà, in un passo a mio giudizio centrale, che riprende l’insegnamento di Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI, del discorso di Ratisbona, la Caritas in veritate sostiene che «l’eccessiva settorialità del sapere, la chiusura delle scienze umane alla metafisica … sono di danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche allo sviluppo dei popoli, perché … viene ostacolata la visione dell’intero bene dell’uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano»;

 – lungi dall’essere una prevaricazione sull’economia e sulla sua autonomia di scienza dell’uomo, queste affermazioni intendono in realtà rivalutarla nella prospettiva di «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, (Caritas in veritate 122)» e dobbiamo ritenere che così, ad esempio, le abbia interpretate un’economista non attribuibile a una qualche supposta scuola cattolica come Mario Deraglio, quando sulle pagine de Il Sole 24 Ore indicava la Caritas in veritate come il libro dell’anno;

 – e, del resto, molta acqua è passata sotto i ponti da quando una certa scienza economica assumeva la figura, che oggi ci appare un po’ caricaturale, dell’homo oeconomicus come pietra fondante della sua costruzione scientifica, mentre tutt’al più si tratta di una finzione utile a fini conoscitivi e didattici;

 – di nuovo la Caritas in veritate ci ricorda che «la sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, dev’essere strutturata e istituzionalizzata eticamente» (n. 128).

Si comprende, allora, l’affermazione per cui «l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono essere male utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi … Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale» (Caritas in veritate 127).

In quest’ottica tutte le fasi dell’attività economica – la produzione, la finanza, la distribuzione, il consumo – hanno implicazioni di carattere morale.

Viene quindi superata con la Caritas in veritate un’interpretazione angusta, anche se storicamente non priva di meriti, secondo la quale all’economia spetta la produzione di ricchezza e alla politica il compito di distribuirla.

In realtà il modo, le condizioni, le dimensioni della produzione di ricchezza non si sottraggono a considerazioni di giustizia, perché queste valgono per tutto il processo economico, e non già dopo o lateralmente (128): il che non significa che non servano anche leggi giuste e forme di redistribuzione guidate dalla politica.

Una pietra di paragone significativa in ordine ai risvolti applicativi di queste considerazioni è rappresentata dalla questione del profitto e della sua valutazione.Afferma la Caritas in veritate (n. 21) che il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo.

L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà.

Ancora qualche tempo fa queste affermazioni erano ritenute una indebita intrusione nella sfera di competenza della scienza economica, quasi una manifestazione di ignoranza combinata con uno spirito di intolleranza dogmatica.

Per la verità le più recenti evoluzioni del pensiero economico si confrontano seriamente con queste problematiche.

La crisi globale, ora, ha generato elaborazioni e interpretazioni nelle quali la questione del profitto come motore esclusivo e fine dell’economia è stata sottoposta a profonde revisioni critiche.

Basti pensare allo svelamento di logiche di massimizzazione del profitto a breve termine che hanno innescato e sostengono la corsa all’arricchimento cieco e indiscriminato, a carattere individuale ed egoistico, con tutto il contorno di sperequazioni, disuguaglianze e ingiustizie sociali.

Il che comporta che ci sono altri modi di produzione del profitto compatibili con una serie di vincoli che esprimono una logica economica più piena e più ricca di sviluppi e di significati, diciamo pure più coerente con l’umanità da cui proviene.

Occorre tuttavia riconoscere, ed è questo un ulteriore originale contributo della Caritas in veritate all’avanzamento della teoria economica, che la dimensione dell’economico non può essere circoscritta alle attività motivate della ricerca del profitto, quale che ne sia la sua destinazione (a fini sociali piuttosto che individuali).

Nell’economia deve avere diritto di cittadinanza anche la discontinuità: e quale discontinuità è maggiore che quella di dare spazio entro la normale attività economica a un principio di gratuità e alla logica del dono?

Può sembrare paradossale, ma, se ci pensiamo bene, le prime attività economiche dell’uomo nascono dal dono della terra e delle risorse naturali, oltre che dall’intelligenza.

Ecco perché la Caritas in veritate chiede che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza perciò rinunciare a produrre valore economico (n. 128).

E dev’esser chiaro che non si tratta di una sorta di «riserva indiana» per anime belle: perché la vita economica dev’essere compresa come una realtà a più dimensioni, nelle quali, in tutte anche se con modalità specifiche, è presente l’aspetto della reciprocità fraterna.

A ciò si riconduce un significato esteso della categoria di imprenditorialità, oltre la distinzione fra privato e pubblico e muovendo dall’assunto che essa è iscritta in ogni lavoro, poiché, come diceva con una splendida espressione Paolo VI, «ogni lavoratore è un creatore».

Questi criteri di fondo trovano svolgimento nelle analisi che la Caritas in veritate propone in ordine alle fenomenologie più attuali della vita economica e sociale, nell’assunto che l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura (Caritas in veritate 140).

È forte, tuttavia, la consapevolezza che la dimensione dei problemi oggi è tale da travalicare le possibilità di governo degli Stati.

Si richiede pertanto «un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione» (Caritas in veritate 162).

Non si tratta di un governo analogo ai governi nazionali, quanto di un sistema ordinamentale dotato di poteri di decisione in ordine al concreto bene comune su scala planetaria.

Come tale esso sarà articolato su più livelli e su piani diversi che collaborino reciprocamente. il contrario di un potere universale di tipo monocratico che la Caritas in veritate giudica chiaramente come pericoloso (n. 133).

Si tratta chiaramente di un’apertura e di un sostegno a un’esigenza che solo ora comincia a trovare forme di applicazione: forme non sempre efficaci, ancora inadeguate, ma da portare avanti per il bene complessivo dell’umanità.