Cultura & Società

Giovanni Rosini e la «Monaca di Monza»

di Carlo LapucciSi dice che sorte più triste d’essere geni incompresi è quella di essere presi per geni e non esserlo. Peggio ancora crederci. È quello che è accaduto a Giovanni Rosini, colui che pronunciò quella un tempo nota affermazione «La mia Monaca di Monza ha ucciso i Promessi sposi».

Sono scaduti 150 anni dalla sua morte (1855), ora scadono 230 anni dalla sua nascita (1776), ma il ricordo di Giovanni Rosini, nato a Lucignano della Chiana e morto a Pisa, non è rinverdito. Non che sia stato uomo da farsi particolarmente rimpiangere, ma qualcuno fu e a noi, che siamo posteri, tocca sentenza, che non pare troppo ardua.

Se non altro rimane della memoria dei letterati la celebre frase che un giorno era comune per dire che la montagna ha partorito il topo, ovvero è stata fatta un’opera ridicola, che si aspettava grandiosa, sbandierata con molta presunzione: E ponza ponza venne fuori la Monaca di Monza.

Rosini comunque rimane una figura emblematica, un paradigma di tipi oggi sempre più frequenti. I media che omologano facilmente qualunque valore, se non lo creano addirittura per far notizia, producono sempre più numerosi capolavori letterari, soprattutto romanzi, spesso di dimensioni temibili. E forse per questo si ricorda malvolentieri ciò che costituisce un colossale abbaglio collettivo, una dimostrazione di come, nel giudizio popolare, la mediocrità e il genio spesso si confondono.

Dopo che Manzoni ebbe pubblicato Fermo e Lucia (1823) e quindi I promessi sposi (1827), apparve un romanzo: La signora di Monza (1829), che fu ristampato e rimane conosciuto col titolo La monaca di Monza, Storia del Secolo XVII. L’autore era appunto Giovanni Rosini, uomo di lettere, docente d’eloquenza italiana all’Università di Pisa, dove aveva compiuto i suoi studi e dove rimase fino alla morte. Critico, filologo, romanziere, poeta, era figura di spicco della cultura italiana. Curò l’edizione della Storia d’Italia del Guicciardini, intervenne nel 1820 nella questione della lingua, ebbe una corrispondenza col Leopardi, col Giusti, scrisse un poemetto encomiastico per Napoleone: Le nozze di Giove e Latona, non poche raccolte di versi (Prose e versi, 1826; Rime e prose, 1830-32; Nuove rime, 1842; Miscellanea di versi e prose, 1843), dialoghi, saggi, opere storiche. Con un dramma, Torquato Tasso, e un saggio sulla triste fine del poeta, varcò le frontiere italiane, ebbe traduzioni e fortuna all’estero. Tra questa congerie di lavori nulla ha retto alla prova del tempo, vale a dire che si tratta di onesto lavoro intellettuale che testimonia solo intelligenza e operosità.

Forse la parte più importante dell’opera del Rosini, paradossalmente è quella dello storico dell’arte. Scrisse infatti un Saggio sulle opere e sulla vita di Antonio Canova, una Storia della pittura italiana illustrata coi monumenti. Questa soprattutto meriterebbe una considerazione, non tanto per la mole che è considerevole, ma per la sensibilità dell’Autore alla realtà estetica e, campo nel quale eccelse, la straordinaria informazione, l’abbondanza di dati e di elementi storici, la conoscenza del panorama delle epoche che riproduce nei particolari situandovi i vari artisti. Inoltre il Rosini attivò una squadra di disegnatori e incisori per riprendere dall’originale le opere d’arte e riprodurle poi nella sua storia, fatto che costituisce un’opera nell’opera, una documentazione eccezionale, se si pensa a quanto in seguito è andato perduto.

Per i suoi studi, la sua indole, la minuziosità aveva capacità nel ricostruire, anche nelle opere di narrativa, gli eventi e gli ambienti storici, cosa che non fu secondaria nel procurargli il successo. Certamente ebbe dell’ingegno, del fiuto nel cogliere i gusti e gli umori del tempo, nell’andare incontro ai desideri e alle aspettative del pubblico. Si sa che un’epoca si fa un’idea convenzionale di quelle che l’anno preceduta e guai a chi la contraddice. Oggi ad esempio si pensano del Medio Evo le cose peggiori: violenza, ignoranza crudeltà, religiosità fanatica e bigotta, stragi, conventi come dépendances di Sodoma e Gomorra; non contano nulla San Benedetto, Boezio, San Francesco e il suo Ordine, Dante Alighieri, Leonardo Fibonacci, Giovanni Pisano, Giotto, Tommaso d’Aquino, Abelardo, per dire solo qualcuno. Per avere successo bisogna trasfigurare un’epoca e narrarla nei luoghi comuni del proprio tempo. E questo fece perfettamente il Rosini: presentò una storia del Seicento secondo quello che gli uomini dell’Ottocento volevano che fosse stato quel secolo.Abile confezionatore di quelli che, chiamati col loro vero nome si dicono polpettoni, oggi mattoni, puntando sempre verso le 500 pagine e oltre, Rosini fu abile nel creare il prodotto richiesto dal mercato e nella Monaca di Monza fu abilissimo, ma non si fermò lì, e altri romanzi storici apparvero: Luisa Strozzi (1833); Il Conte Ugolino della Gherardesca e i Ghibellini di Pisa (1843). È una costante storica che c’era prima di lui e proseguì con Guerrazzi, Massimo d’Azeglio e qui ci fermiamo.

La cosa che il Rosini non avrebbe dovuto fare è accanirsi con la sua testa di turco che fu Alessandro Manzoni e non poteva scegliere di peggio. Preso dall’euforia del successo perse i limiti e la decenza. La Monaca di Monza in pochi anni ebbe ben venti edizioni, fu tradotta in diverse lingue prima che lo fossero i Promessi sposi, segno che anche all’estero si beve grosso.

Per dare un’idea di questo capovolgimento di valori un uomo di cultura tra il 1835 e il 1850 poteva anche dire di non conoscere il capolavoro del Manzoni, ma non quello del Rosini. Nel 1834 Cesare Cantù, che peraltro non era un’aquila, scrisse i Ragionamenti sui Promessi sposi e lo mandò all’Indicatore Lombardo. Si sentì rispondere dal direttore della rivista: – Perché hai scritto su un libro ormai dimenticato?

Incapace di autocritica, vanaglorioso e superficiale, il Rosini prese il vento in poppa e cominciò a fare l’anti Manzoni, prendendo delle posizioni che, via via che si andava posando il polverone e i valori si mostravano nella loro realtà, divennero sempre più comiche e perfino ridicole.La sua protervia fu notevole e tenace. Aveva cominciato col sostenere d’aver scritto il suo capolavoro senza sapere nulla dell’opera del Manzoni, quando le date di pubblicazione erano contro di lui ed era stato talmente ingenuo da mettere nel suo testo un riferimento al rapimento di Lucia. Presa questa strada la seguì fino alla fine della sua vita che non fu breve e che purtroppo gli fece conoscere anche delle amarezze. Se il mondo era con lui, la cittadella degli addetti ai lavori e delle persone di valore lo stimava sempre meno e certamente non fino al punto di apprezzare le sue sparate antimanzoniane, che divennero oggetto di riso e di aneddotica.

Nei salotti fiorentini si vedevano scene pietose, quale il dialogo del Rosini con Alberto Nota, un mediocre letterato, come riferisce il Tommaseo nei Colloqui col Manzoni: «Tronfi tutt’e due, duellavano di cortesia e di vanità, facendo a chi sapesse più lodare sé senza dire all’altro villania. S’aggrappavano, ma il mondo è tondo e non potevano sempre rimanere tutt’e due sulla cima».

Lo stesso Tommaseo lo colpì con due epigrammi non certo benevoli.

In ogni opera sua vero ed espressosempre il buon dipintor pinse se stesso;vedete un poco il professor Rosinicome dipinge i birri e i birichini.

Nel secondo prende in considerazione Il Cinque Maggio, la poesia del Manzoni che al tempo piacque tanto da far versare lacrime di gioia anche a Goethe. Il Rosini, convinto che non andazze bene lo aveva rifatto, per cui il Tommaseo finse un colloquio:

– Un Cinque maggio fai, Nanni anche tu?– Sicuro! E ne farei trenta di più Questa mania lo spinse fino a rivedere pubblicamente le bucce al suo rivale. Del Cinque Maggio non gli andava giù il verso le braccia al sen conserte. In un salotto milanese, presenti il Giusti, il Giorgini, il D’Azeglio, qualcuno chiese al Rosini come avesse risolto lui il problema:Io? Per esempio così (mi duole se dimentico qualche variante): O quante volte al tacito cader d’un giorno imbelle,chinati i rai fulminei,le man sotto le ascelle…

Uno scontro di titani che rimase a lungo nei repertori d’aneddotica.

Per saperne di piùGiovanni Rosini con il romanzo La Monaca di Monza comprese diversi motivi che seppe poi combinare per confezionare un best-seller. Capì che Manzoni aveva scovato un periodo interessante su cui situare un romanzo storico italiano. Si rese conto che la borghesia italiana, ancora esigua, incerta e in gran parte ignorante, aveva bisogno di compiacersi d’argomenti e d’ambienti che potessero mostrarle un passato di cui essere fiera e di cui menar vanto. Valutò che una storia di poveracci, quale I Promessi sposi era un osso duro da rodere per il pubblico d’allora e una bella storia di monacazione forzata, di delitti, di colpe segrete, d’avventure e d’amore maledetto, andava spostata negli ambienti nobili, colti, artistici e ricchi del Seicento, e il migliore era quello fiorentino. Era proprio l’ambiente che Rosini conosceva benissimo e nel quale si muoveva come un topo nel formaggio.

Così fece. Invece di seguire la linea narrativa manzoniana fece fuggire Gertrude dal convento con il diabolico amante Egidio per finire nella Toscana secentesca. Qui i due colombi stringono rapporti e amicizie con i più celebri signori, artisti, letterati e intellettuali del tempo, introducendosi negli ambienti dell’aristocrazia, della vita mondana e della società fiorentina. È questa la parte comunemente considerata più riuscita dell’opera, con qualche interesse per chi ne avesse curiosità.

Ma, facendo il diavolo le pentole e non i coperchi, i due devono fuggire e, proprio varcando il confine lombardo, Gertrude vede il suo Egidio morire. È il momento del suo ravvedimento e della conversione che, manco a dirlo, viene perfezionata con una completa confessione ai piedi del Cardinale Borromeo, uomo ormai esperto di queste cose e sempre di manzoniana memoria.

Dal brano che riportiamo, tratto dal tomo III dell’edizione di Napoli del 1829, ci si può fare un’idea della tela grossa filata dal Rosini, che è al di sotto anche dei seri professionisti, come potrebbe essere un Dumas, i quali non avrebbero mancato l’occasione d’una grande peccatrice che si confessa a un così grande prelato, traendone fuori, anche nelle forti tinte, una drammaticità di maniera, ma comunque convincente ed efficace.

Qui invece della pietà e della misericordia che animano il Borromeo manzoniano di fronte all’Innominato, è l’indignazione che scuote colui che deve perdonare: la domina accortamente soltanto per non perdere nulla della miserabile storia, che segue con attenzione più sospetta di curiosità. Gertrude non ha un gesto che ne denoti la psicologia (come nel Manzoni il semplice la sventurata rispose). Solo particolari generici, anche strani: lagrime congelate negli occhi; secche erano le fauci; tremante la persona, un profondissimo ahimè, esclamazioni…

Chi non vede oggi a colpo la differenza tra un artista vero e un volonteroso artigiano? Chi non avverte la fatica, la confusione nell’affastellato testo rosiniano? Eppure per qualche decennio l’asino andò in giro con la pelle del leone, e parve anche che ruggisse meglio. Ancora nelle enciclopedie della fine dell’Ottocento Rosini godeva di un notevole prestigio. Oggi per lui bastano poche righe.Questo ci ha lasciato detto il Rosini e questa sua avventura potrebbe servire ad essere un po’ più accorti con un certo tipo di scrittori. In questo Giovanni Rosini, nonostante l’albagia, ci rimane simpatico come una figura universale che ricorda quelle ben più tragiche di Salieri e Mozart. Altrimenti per chi avrebbe scritto Esopo la favola della rana e del bove? Il testo: La confessione di Gertrude all’Arcivescovo BorromeoFaceva forza a se stesso l’Arcivescovo; e riteneva nel volto l’indignazione, per non trattenere col timore la confessione intera delle sue colpe. Proseguiva ella intanto con un profondo dolore a svelarle. Grandi certo esse erano, e frequenti troppo e mortali; ma parea che di più grandi rimanessero ancora. Non isfuggì al Borromeo che si avvicinava a quell’epoca, in cui sparita era la conversa, già destinata a servirla; e qui le sopraggiungevano i singhiozzi con tale violenza, che le soffocavano i detti.

Amorosamente la confortava il santo uomo; e ripetevale – Grande essere la misericordia di Dio, – ma per gran pezzo restò la misera senza parole. Le lagrime s’erano congelate negli occhi; secche erano le fauci; e tutta tremante la persona. In fine, dopo un profondissimo ahimè! mandando fuori a stento la voce, interrotta ogni istante dall’esclamazioni: …Crudelissirna necessità!… (cominciò a dire; e il Ministro del Cielo tendeva gli orecchi tremando). Una notte… al chiarore del lume, che traspariva dalla porta del parlatorio… il tacito avanzar di due piedi… un grido malaugurato… la paura del disonore…, la certezza del fallo – ma pure di sangue… sì… pure di sangue sono le mie mani (e qui stringea fortemente, quasi in segno di attestazione, le ginocchia dell’Arcivescovo); indi continuava: – Gli occhi soli, che videro; i labbri soli, che tacquero….