Cultura & Società

Se un ateo prova a parlare con Dio

di Giacomo Mininni

Pensando al percorso artistico di Vasco Rossi, tutto può venire in mente tranne che un cammino spirituale, alla ricerca di un Creatore o di un Salvatore visti, spesso, come «favole per bambini», placebo per sopportare un’esistenza dura, ingiusta e, soprattutto, finita. Emblematico è in tal senso C’è chi dice no (dall’omonimo album del 1987), il cui testo non lascia dubbi in merito alla posizione del cantautore nei confronti della fede in generale: «Quanta gente è convinta che ci sia nell’Aldilà… qualche cosa, chissà? Quanta gente comunque ci sarà che si accontenterà! […] C’è chi dice no! Io non ci credo!»

Eppure, sembra che ultimamente qualcosa sia cambiato, se non nelle convinzioni sicuramente nel metodo di indagine, del Blasco. Qualcosa che appare chiaro in uno dei suoi ultimi singoli, Manifesto futurista della nuova umanità (da Vivere o niente di quest’anno), un vero e proprio dialogo aperto fra l’umanità, portavoce Vasco, e Dio, nientedimeno. I toni sono subito chiari: quello del cantante è un rimprovero ad un Padre assenteista, il grido di uno che dovrebbe (vorrebbe?) sentirsi figlio ed invece si sente solo abbandonato: «Ti prego perdonami se non ho più la fede in te. Ti faccio presente che è stato difficile abituarsi ad una vita sola senza di te!» Niente cambi di rotta o conversioni sulla via di Damasco, sembra: «solo» una sorta di testamento spirituale in cui il Blasco sfoga la propria frustrazione contro un Dio nascosto, un «Puro Amore» la cui presenza non è riuscito a percepire. È il grido di un’umanità abbandonata a se stessa, di una Creatura che ha lottato per liberarsi del proprio Creatore e che si è così ritrovata sola, insicura, persa.

Le cose divengono chiare, in questo senso, poco più avanti: «La vita semplice che mi garantivi adesso è mia, però è lastricata di problemi!» Il trionfo della «Nuova Umanità» del titolo si rivela dunque la sua più grande sconfitta, una ciurma ammutinata che ha finalmente messo da parte il capitano e si accorge solo allora di non essere in grado di portare la nave. Non è una nave, però, ma un treno, ad apparire nel video diretto dal collaboratore di lunga data Swan: il simbolo della rivoluzione industriale, come già aveva specificato Guccini con la sua La locomotiva (da Radici, 1972), «un mito di progresso lanciato sopra i continenti», il primo passo dell’allontanamento dell’Uomo da Dio. Questo treno/umanità corre senza freni su binari immersi in un paesaggio desolato, asettico, desertico, in mezzo al quale, quasi all’inizio del percorso, svetta una Croce luminosa: è una fermata che non viene presa in considerazione, una tappa antiquata, un percorso che appartiene alla «Vecchia Umanità», impaurita ed impotente, non certo alla Nuova, sicura del proprio successo e forte delle proprie macchine.

La stessa vita sfugge al controllo di questa Nuova Umanità, lasciata sola con se stessa ed il proprio potere: se nella prima strofa si afferma «La vita arriva impetuosa, ed è un miracolo che ogni giorno si rinnova», più tardi si rettifica: «In fondo la vita è solo una scusa: è lei da sola che ogni giorno si rinnova». La vita va, prosegue ciecamente come un treno lanciato sui binari, appunto, senza curarsi di stazioni o rifornimenti. È una vita privata del Senso, lo stesso sul quale l’artista si interrogava ne Il senso (da Buoni o cattivi del 2004): «Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha», ma se pochi anni fa la risposta poteva trovarsi nell’attesa («Sai che cosa penso? Che se non ha un senso […] domani arriverà lo stesso!»), oggi questo non è più sufficiente, la sensazione di perdita del sé e della propria direzione è diventato quantomai preponderante, insistente, impossibile da zittire.

«Sarà difficile non fare degli errori senza l’aiuto di potenze superiori»: beffarda affermazione della propria impotenza di fronte a se stesso, di fronte ad una mente che non si apre più su uno scomodo orizzonte di Eternità ed Infinito che è stato sapientemente cancellato con un colpo di spugna, di fronte a delle emozioni che non hanno più controllo né significato: «Ho fatto un patto, sai, con le mie emozioni: le lascio vivere e loro non mi fanno fuori!». Queste emozioni, nel video, assumono la forma di belle ma algide donne in uniforme militare, che marciano ad un solo passo verso Vasco e compagni. L’umano, lasciato a se stesso, diventa vittima delle forze che lo potrebbero rendere grande, una lezione imparata a proprie spese, fra psicanalisi ed esaurimenti.

In fondo al binario che sembrava senza fine, che il treno/umanità percorre, svetta, forse come portale verso un Altrove più a misura d’uomo, forse come barriera invalicabile contro cui le aspirazioni di superomismo inevitabilmente si infrangono, L’origine del mondo (L’origine du monde, 1866) di Courbet, simbolo e manifesto del materialismo che non riconosce compromessi, dell’immanenza che chiude per sempre le porte alla trascendenza, tagliando, così, anche la speranza del Senso, alle proprie spalle, e dello Scopo, al proprio orizzonte. Non si sa qual è il destino del treno su cui Vasco corre, se passerà attraverso il quadro per arrivare ad un Aldilà che è più un Aldiqua, o se invece il materialismo scelto dall’umanità sarà proprio il limite ultimo contro cui la stessa finirà con lo schiantarsi.

Manifesto futurista della nuova umanità non dev’essere inteso, quindi, come una ricerca nostalgica di una fede perduta: Vasco Rossi è e rimane un ateo, uno dei sostenitori dello stesso materialismo ad oltranza che vede lucidamente essere diventato il flagello di questa umanità «nuova». La canzone è piuttosto il grido disperato di chi, dopo una lunga battaglia, ha raggiunto il proprio fine, e si è reso conto di aver solo peggiorato la situazione di chi voleva salvare. L’uomo, senza Dio, non si ritrova libero, sereno, onnipotente, soltanto solo, dubbioso e spaventato, come un bambino che è fuggito dall’abbraccio amorevole del Padre.