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Cristiani sotto tiro: parla il patriarca di Gerusalemme

Dalla Siria alla Nigeria, dal Sudan alla Cina, i cristiani sono nel mirino degli integralismi e dei terrorismi di ogni specie. Ne abbiamo parlato con il Patriarca di Gerusalemme, in visita alla Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro in occasione dell'anno della fede.

E’ stato il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, l’ospite d’onore di un confronto tra credenti e non credenti, sabato 20 ottobre in San Michele ad Arezzo, nell’ambito dell’Anno della fede in diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, guidata dall’arcivescovo Riccardo Fontana. Una presenza resa ancor più significativa dal fatto che la diocesi aretina ed il patriarcato latino sono legati dal 2010 da un gemellaggio. «Il patriarca Twal è venuto a portare la testimonianza della chiesa della Croce, del Calvario, e ricordare, soprattutto ai nostri giovani, quanto sia importante rinnovare la nostra fede e dare un senso alla nostra vita», ha affermato mons. Fontana, nel corso di una tavola rotonda sul tema «Qual è la vera croce, cioè quella che salva? Quale via per la felicità e la salvezza?», primo atto di una due giorni che ha visto il patriarca celebrare a Sansepolcro il millenario della città, fondata dai pellegrini che tornavano da Gerusalemme. «La Croce è la dimensione drammatica della nostra vita. Tanti sono i problemi che ci affliggono» ha dichiarato Fouad Twal riferendosi anche alla Terra Santa, segnata da violenze e conflitti. «Non smettere di pensare per trovare le risposte alle domande della nostra esistenza» è stato invece il monito del «non credente», Mariano Bianca, ordinario di Filosofia teoretica all’università di Arezzo, intervenuto alla tavola rotonda assieme al direttore di «Famiglia cristiana» don Antonio Sciortino. Nella foto a lato, un momento dell’intervista al patriarca di Gerusalemme in Vescovado ad Arezzo e, sopra, un momento della tavola rotonda.

Patriarca Twal, la comunità cristiana di Terra Santa, che rappresenta un’esigua minoranza della popolazione totale, vive in un costante clima di crisi sociale, che deriva in buona parte dalla situazione politica attuale. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha indetto le elezioni anticipate per gennaio 2013. Quali sono gli orizzonti? Cosa può cambiare?«È da sessant’anni che noi viviamo senza una visione chiara del nostro futuro. La cosa che spaventa di più, oggi, è la perdita di credibilità dei dirigenti politici agli occhi dell’opinione pubblica. Un futuro di pace chiede dei sacrifici, chiede un piano concreto, che restituisca fiducia alla popolazione. Le elezioni in Israele possono far cambiare il partito al potere, ma non la posizione del governo verso la situazione dei Palestinesi e la causa della pace. A livello geografico, oggi, è impossibile pensare ad uno Stato Palestinese libero, perché non c’è continuità territoriale. Quello che vediamo è una politica chiara e netta finalizzata a gestire il conflitto senza risolverlo, mantenendo lo status quo. Per la popolazione, che ha sofferto e continua a soffrire, la prima opzione è quindi l’emigrazione: ecco da dove nasce la forte emorragia umana di cui siamo quotidianamente testimoni».In questo quadro, come vede il futuro dei cristiani?«Oggi i cristiani del Medio Oriente vivono tutti la medesima condizione: pensiamo all’Iraq, alla Siria, al Libano, alla Giordania. È una situazione di calvario di cui non si vede la fine. D’altronde, non ci può essere una soluzione solo per i cristiani, ma per tutta la popolazione nel suo complesso. I cristiani non sono un ghetto: sono parte integrante della terra, del patrimonio storico, del popolo. Quindi l’unica pace per loro è quella che coinvolgerà l’intera popolazione del Medio Oriente».Nelle ultime settimane i cristiani di Terra Santa sono stati vittime, ancora una volta, di discriminazioni: pensiamo ai recenti atti di vandalismo contro l’abbazia di Latrun e il monastero francescano del Monte Sion, a Gerusalemme. Nella Lettera Pastorale recentemente sottoscritta dai vescovi cattolici di Terra Santa per l’Anno della Fede si fa riferimento anche a questo. Qual è l’appello che lanciate?«Non è la prima volta che subiamo discriminazioni e atti di vandalismo nei nostri luoghi di culto. Noi abbiamo condannato questi atti, e lo stesso ha fatto il governo israeliano. Ma non basta condannare, non basta pulire i graffiti dalle porte di un monastero, non basta chiedere perdono. Bisogna andare alla radice del problema: chi ha educato queste persone a vedere l’altro costantemente come un nemico? Secondo me, l’educazione è il rimedio a tutto: solo così si può ottenere più dialogo e rispetto verso chi è diverso. Questo è un programma che il governo deve prendere a cuore. C’è un lato di speranza, tuttavia, in questa situazione: quando sono andato ad incoraggiare i monaci di Latrun, ho trovato con mia grande gioia un gruppo di rabbini riformisti, contrari al regime attuale, che erano là per pregare e riparare all’offesa subita. Ci siamo abbracciati, abbiamo pianto insieme. Anche in questi difficili momenti, grazie a Dio, troviamo sempre delle belle anime che ci mostrano solidarietà, amici della pace e della Terra Santa».Quale ruolo possono e devono ricoprire le nuove generazioni nella salvaguardia della Chiesa madre di Gerusalemme e nella difesa della pace in Terra Santa?«Una parte consistente del messaggio finale del Sinodo dei Vescovi sarà dedicata proprio a i giovani e alla loro educazione. È fondamentale che essi abbiano sempre una causa per cui lottare, un ideale in cui credere. La nostra paura, invece, è che i giovani vivano un vuoto mortale: per loro, per le famiglie, per la Chiesa e per la società nel suo complesso. Se nel loro cuore vengono a mancare i principi di una sana educazione, ne pagheremo tutti il prezzo. Si dice che una Chiesa senza giovani sia una Chiesa senza futuro. Io aggiungo: anche i giovani, senza Chiesa, sono giovani senza futuro. Abbiamo bisogno gli uni degli altri».