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«Forse in Iraq i moderati musulmani non esistono più»

La drammatica testimonianza di padre Douglas Joseph Shimshon Al-Bazi, sacerdote cattolico di Baghdad, parroco ad Erbil (Kurdistan iracheno), dove nel sobborgo di Ankawa accoglie i cristiani fuggiti dalla violenza dell’Isis. Parole come macigni: «In Italia i musulmani vivono tra di voi e convivono. Ma quando sei tu cristiano a dover vivere in mezzo ai musulmani allora la convivenza è impossibile».

L’Isis? «È un topolino diventato un dragone in poco tempo, formato da musulmani che stanno facendo quello che Maometto ha fatto 1400 anni fa. L’Isis rappresenta l’Islam al 100%. Un topolino che è cresciuto perché ha trovato le giuste condizioni per crescere. Il conflitto, in Medio Oriente e nel mio Paese non è per il petrolio. È uno scontro nell’Islam stesso, tra sunniti e sciiti. Isis è sunnita e per questo ha trovato sostegno tra i sunniti di Mosul. Ma la prossima generazione di Isis sarà la peggiore e verrà dalla parte sciita». «Non usa giri di parole» per raccontare quanto accade oggi in Iraq, padre Douglas Joseph Shimshon Al-Bazi, sacerdote cattolico di Baghdad, parroco di Mar Eillia ad Erbil (Kurdistan iracheno), dove nel sobborgo di Ankawa è responsabile di due centri di accoglienza per i cristiani fuggiti dalla violenza dell’Isis. E non potrebbe essere altrimenti, per lui che da bambino ha visto la guerra contro l’Iran e vissuto sotto il regime di Saddam fino al 2003, passando per la guerra del 1991, gli anni dell’embargo internazionale e le ondate di violenze contro i cristiani (2004, 2006, 2010). Gli hanno sparato, una bomba è esplosa vicino alla sua chiesa, è stato rapito nel 2006 per 9 giorni, nei quali è stato torturato, picchiato con un martello, lasciato senza acqua. Vicende che oggi gli fanno dire che «forse i musulmani moderati non esistono più».

«Ciò che è successo a me ora sta accadendo al mio popolo» racconta, ricordando la catena della sua prigionia usata come Rosario recitato continuamente «per non perdere la speranza». Oggi quella stessa catena del conflitto è intorno «al collo della mia gente» che padre Douglas aiuta nei centri di accoglienza ad Ankawa. «Dalla sera alla mattina sono arrivate migliaia di famiglie cristiane di Mosul e di Ninive con quel poco che sono riuscite a prendere prima di fuggire dall’Isis. Oggi, dopo un anno, la situazione è ancora terribile. Le persone che ospitiamo vivono in case da terminare, in affitto o in roulotte». Ma non è questo che preoccupa il sacerdote che ha ripetuto gli stessi concetti alla platea del Meeting di Rimini domenica 23 agosto. Ben altra è la preoccupazione: «le persone si chiedono cosa sarà della loro vita. Tra loro vi è chi ha paura del futuro e chi invece il futuro lo sta aspettando. Coloro che cercano il futuro non vogliono restare in Iraq, quelli terrorizzati dal futuro lo sono perché sanno che dovranno restare e tornare a vivere con i musulmani. Io e la mia gente siamo preoccupati per quello che succederà dopo l’Isis». Perché, denuncia padre Al-Bazi «i problemi nel mio Paese sono ancora all’inizio».

Una consapevolezza che genera terrore tra le famiglie. «Ciò che spaventa la mia gente non è la mancanza di cibo o medicine ma la mancanza di speranza. Non abbiamo speranza in Iraq. Siamo perseguitati. La gente chiede quando il Governo, e gli Usa ci libereranno, ma il problema non è l’Isis. Eravamo perseguitati già prima del suo avvento». Le sue parole sono come macigni: «in Italia i musulmani vivono tra di voi e convivono. Ma quando sei tu cristiano a dover vivere in mezzo ai musulmani allora la convivenza è impossibile». Sembrano lontani gli inviti alla conoscenza e alla convivenza, lanciati dal Meeting, pochi giorni prima (20 agosto), da Azzedine Gaci, rettore della moschea Othmane di Villeurbanne (Francia), da Haïm Korsia, Gran Rabbino di Francia e dal cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. L’esperienza vissuta da padre al-Bazi racconta anche l’altra faccia della medaglia. E vuole che si sappia, che l’opinione pubblica la conosca senza mezzi termini.

«Quello che sta accadendo al mio popolo è un genocidio – alza la voce il sacerdote – e l’unico che lo riconosce è Papa Francesco. Apprezzo molto il sostegno della Chiesa italiana e dei vescovi di tutto il mondo, lo sforzo della Caritas Italiana per costruire un’università a Erbil, ma bisogna pensare anche a centinaia di migliaia di persone. Ripeto le parole del vescovo di Erbil, monsignor Bashar Warda: ‘se non potete aiutarci a restare aiutateci ad andarcene’. L’Isis è forte perché riceve sostegno da tanti Paesi e rappresenta una minaccia per i cristiani e per tutto il Medio Oriente. I suoi miliziani sono in Iraq solo per immolarsi e uccidere». E presto lo potrebbero fare anche in Occidente.

«Il cancro è alla vostra porta. Vi distruggeranno – avverte padre Douglas -. Noi cristiani siamo l’unico gruppo che ha visto il volto del male, l’Islam. Pregate per la mia gente, aiutate la mia gente, salvatela. Io sono un sacerdote e penso che prima o poi mi ammazzeranno. Oggi mi preoccupo dei nostri figli, penso alla comunità come una madre. Gesù è la terra promessa. Occorre svegliarsi e fare qualcosa per salvare il mio popolo. Non ci saranno più cristiani in Medio Oriente ma l’ultima parola sarà la nostra e sarà ‘Gesù ci ha salvato’. Non smetteremo mai di ripeterlo. Mai!».