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La difficile vita dei cristiani in Iraq: «Ma ci sono segni di speranza»

In un incontro presso la redazione centrale di Toscana Oggi, l’arcivescovo Sleiman ha ringraziato la Fondazione «Giovanni Paolo II», che ha finanziato la realizzazione di un centro giovani a Baghdad: «Ora in Iraq c’è bisogno, come non mai, di costruttori di pace e non di interventi militari, che sono buoni solo per fare notizia».

«Sono molto contento di essere qui a Firenze, nella sede del vostro settimanale, con il vescovo Luciano a parlare del nostro Iraq, di come vivono i cristiani, del problema della guerra, della paura, ma anche e soprattutto della speranza», con queste parole ha iniziato il suo intervento mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad dei Latini a Firenze per qualche ora.

L’incontro, tenutosi nella sede di Toscana Oggi, guidato dal direttore Andrea Fagioli, e introdotto dal Presidente della Fondazione Giovanni Paolo II, il vescovo emerito di Fiesole mons. Luciano Giovannetti, ha permesso di ascoltare da uno dei protagonisti la situazione politica, economica, sociale che si vive in Medio Oriente. «Luogo meraviglioso, ricco di storia, che oggi vive in una situazione di grave difficoltà. In particolare i cristiani che vivono a Baghdad, sono oggi meno di mille, qualche anno fa erano cinque volte di più. Ma chi poteva è andato via, molti sono stati uccisi, anche oggi vivere nella capitale irachena è assai complesso. Anch’io che vivo nella zona verde, per spostarmi ho bisogno di visti, pass, anche solo per andare a celebrare la Messa o a trovare dei cristiani che soffrono».

La Fondazione Giovanni Paolo II ha realizzato un centro per giovani proprio nel centro di Baghdad, nella zona verde. Voluto da mons. Sleiman, per aiutare i ragazzi a crescere, incontrandosi, dialogando, in un luogo sicuro e aperto a tutti: un piccolo segno di speranza. «La prossima settimana partiranno per Baghdad – ha spiegato mons. Giovannetti – Elvio Fani e Alessandro Bartolini, che hanno progettato e seguito la costruzione del centro giovani. È un modo concreto per essere vicini ai cristiani iracheni. Noi desideriamo far sentire loro che non sono soli, ma che siamo tutti insieme parte dell’unica chiesa. Andranno a Baghdad per valutare e verificare la possibilità di costruire una scuola per i ragazzi».

Mons. Sleiman ha ringraziato la Fondazione per il suo ruolo di costruttore di pace. «Ora in Iraq c’è bisogno, come non mai, di costruttori di pace – ha spiegato Sleiman – e non di interventi militari, che sono buoni solo per fare notizia, quando ne fanno, ma che lasciano le cose come stanno, perché non aiutano a superare le divisioni che si sono create e che esistono. Si deve vincere la guerra non con un’altra guerra, ma con la pace, da costruire giorno per giorno, con il concorso di tutti. È certamente difficile, ma è l’unica strada percorribile». Sleiman ha fatto riferimento alla sua vita, alla sua origine libanese. «La mia vita – ha detto – è stata segnata da uno stato di guerra continuo, da guerre che si sono succedute nella regione, guerre civili e guerre tra i singoli stati, sempre con il concorso di potenze straniere che sono rimaste le stesse nel corso del XX secolo, come nel caso degli Stati Uniti e della Russia, o che sono apparse nella regione, come la Cina e la «discreta» India, che c’è anche se non appare. Tutte interessate prevalentemente alle ricchezze naturali, dal petrolio al gas naturale, del Medio Oriente e al loro approvvigionamento».

Oggi in Iraq si vive una situazione drammatica, «nessuno di noi rimpiange la dittatura di Saddam che non dava libertà, perché la libertà è un bene prezioso che non può essere barattato con niente. Durante la dittatura di Saddam i cristiani non si sono preparati alla libertà perché sembrava impossibile abbattere la dittatura. Poi ci sono state le guerre, Saddam è caduto e con lui lo stato che per alcuni mesi non è più esistito, creando un vuoto di potere, che ha pesato e pesa nella vita dell’Iraq». Questo vuoto di potere, per esempio, ha portato alla liberazione di tutti i detenuti, che non erano politici, perché quelli politici erano stati uccisi dalla dittatura, detenuti per reati comuni che, una volta usciti, si sono riorganizzati in bande terrorizzando la popolazione e creando tanti stati dentro una società senza stato.

«L’Iraq vive tre emergenze: un’emergenza umanitaria causata da migliaia di profughi; un’emergenza politica interna e dell’intera regione; un’emergenza religiosa, per la presenza di un califfato aggressivo, che usa il Corano per giustificare violenze su violenze». Nonostante tutte queste difficoltà, «la formazione di un governo in Iraq è un segno di speranza: su questa speranza va costruito un presente di dialogo e di conoscenza, tanto che dopo la costruzione della cittadella per i giovani intitolata a San Giovanni Paolo II, dove far incontrare i giovani, stiamo pensando al progetto di una scuola per far studiare, per far conoscere sempre meglio le ricchezze spirituali e storiche degli iracheni».