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Terrorismo: pronti a tutto, a uccidere e dare la vita. Le vie della radicalizzazione sono infinite

Sono pronti a tutto, ad uccidere in nome della loro ideologia e a dare la propria vita: la maggior parte dei terroristi muore in seguito all’attacco o perché suicida o perché ucciso dalle forze dell’ordine. Ma come si districa il percorso di un giovane verso la radicalizzazione è impossibile da stabilire. L’Ispi ha analizzato il fenomeno del terrorismo e della radicalizzazione in un Rapporto edito in questi giorni.

Per essere definito «attacco terroristico», ci deve essere una rivendicazione, deve essere un atto deliberato e avere una chiara motivazione ideologica. Molto difficile se non impossibile delineare un percorso unico di radicalizzazione. È chiaro però che occorre sfatare il «mito» del terrorista-immigrato così come del terrorista povero e non integrato: la maggior parte degli attentatori sono nati e cresciuti nei Paesi in cui hanno compiuto l’attentato e alcuni di loro hanno alle spalle percorsi di studio anche di alto livello. Di fatto, sono pronti a tutto, anche a dare la vita: la maggior parte di loro muore in seguito all’attacco o perché suicida o perché ucciso dalle forze dell’ordine. È di nuovo l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) a tracciare un’analisi sul fenomeno del terrorismo e della radicalizzazione in un Rapporto edito in questi giorni dall’Istituto condotto da Lorenzo Vidino, Francesco Marone ed Eva Entenmann.

Definizione. Per attacco terroristico si intende un atto di violenza deliberato contro persone, commesso da uno o più individui, con intenzione di fare il maggior numero di vittime, intimidire l’opinione pubblica. Tre i criteri che determinano e caratterizzano l’atto terroristico: l’atto di violenza deve essere attivo e deliberato e deve essere condotto contro persone e cose; la violenza deve avere una motivazione ideologica (nel nostro caso jihadista); la violenza non può essere legata a obiettivi o motivazione puramente personali.

La rivendicazione. L’atto terroristico deve essere rivendicato. Solo quando un gruppo jihadista dichiara che gli attentatori di un determinato attacco hanno agito perché supportati o ispirati da quel gruppo, l’attacco può dirsi terroristico e rivendicato. La rivendicazione può essere fatta direttamente dall’attentatore oppure in seguito via media tramite per esempio Amaq, che è un’agenzia di stampa che offre informazioni sulle principali operazioni dello Stato Islamico o riviste online come Dābiq, pubblicata sempre dallo Stato Islamico a scopo di propaganda.

La data. Se nell’arco di tre anni (dal giugno 2014 a giugno 2017), ci sono stati 51 attacchi terroristici, il picco degli attentati c’è stato nel mese di luglio 2016, quando ci furono due attacchi in Francia e due in Germania. A questi, purtroppo, hanno fatto seguito i due in Spagna, compiuti ieri (17 agosto) a Barcellona e a Cambrils.

Il Paese. Il Paese che in questo periodo di tempo, ha subito il maggior numero di attentati è stata la Francia con 17 azioni terroristiche, seguita da Stati Uniti (16), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3). Dei 51 attacchi terroristici compiuti dal giugno 2014, anno in cui lo Stato Islamico si è autoproclamato, al giugno 2017, 32 sono stati compiuti in Europa (63%), 19 in Nord America (19%).

I luoghi. La maggior parte degli attacchi ha preso di mira i centri urbani. La città che ha subito il numero maggiore di attentati è Parigi (5, più due nelle sue immediate vicinanze). Seguono Bruxelles (3), Berlino (2) e Londra (2). Quattro, secondo il Rapporto Ispi, le ragioni per cui i terroristi preferiscono le città: l’elevato livello di accessibilità in anonimato ai luoghi; la possibilità di massimizzare il numero delle vittime; la possibilità di massimizzare i danni materiali ed economici e, infine, l’alto valore simbolico o politico che l’atto di violenza può assumere.

Gli attentatori. Nonostante la radicalizzazione faccia presa soprattutto sui giovanissimi, l’età media degli attentatori è di 27,3 anni e quasi un terzo dei terroristi impiegati sul campo ha una età superiore ai 30 anni. Sebbene poi stia aumentando la presenza delle donne nella rete jihadista, solo due se ne contano sui 65 terroristi. Le donne assumono piuttosto un ruolo «ausiliare», sostenendo le attività di reclutamento, logistica e supporto dei terroristi. La maggioranza degli attentatori (43 sui 65, 66%) muore nel corso dell’attacco o perché suicida o perché ucciso dalle forze dell’ordine.

Terrorismo, immigrazione, micro-criminalità, detenzione. Si tratta di un argomento delicato e complesso, utilizzato spesso per polarizzare il dibattito politico. Dal Rapporto emerge innanzitutto che è praticamente inesistente il legame del fenomeno del terrorismo con quello dell’immigrazione: il 73% degli attentatori erano cittadini del Paese nei quali hanno compiuto le azioni terroristiche. Solo il 17% si è convertito all’Islam mentre sale fino al 57% la percentuale degli attentatori che avevano trascorsi di delinquenza e al 34% la cifra di coloro che hanno avuto un passato di detenzione. Il Rapporto evidenzia pertanto lo stretto legame tra terrorismo, detenzione e micro-criminalità (crimini legati al possesso e spaccio di droga; possesso di armi, violenza fisica, furti e omicidi). Significativo da questo punto di vista anche il fatto che l’82% degli attentatori erano conosciuti alle forza dell’ordine, prima dell’attentato.

Le reti della radicalizzazione. Individuare i percorsi che conducono un ragazzo sulla via della radicalizzazione è lo sforzo maggiore che stanno cercando di fare gli analisti e gli studiosi del fenomeno terroristico: capire come e in che modo un giovane decide di abbracciare l’ideologia jihadista e, in alcuni casi, di uccidere e farsi uccidere in nome di questa «fede». Sull’argomento hanno condotto studi esperti di diverse discipline, sociologi, criminologi, psicologi. E molte sono le teorie finora elaborate: si va dai problemi di discriminazione e integrazione, alla mancanza di percorsi formativi e scolastici, agli ambienti poveri e degradati. Oggi sono sempre di più gli esperti che affermano che il processo di radicalizzazione è in realtà un percorso complesso e individuale e come tale sfugge a letture sociologiche pre-ordinate. Molti dei jihadisti europei, per esempio, provengono da ambienti economicamente di successo ed hanno conseguito livelli di educazione medio/alti. Insomma: l’enorme eterogeneità dei profili che emergono dai jihadisti europei, dimostra che non c’è un unico background demografico e socio-economico; non c’è un profilo psicologico evidente né un unico percorso che può caratterizzare gli individui che si radicalizzano.