Toscana

Toscana, allarme carceri

di Antonio Lovascio

Il 2012 si è aperto con una nuova emergenza-carceri in Toscana. Tre gravi episodi avvenuti in pochi giorni nelle strutture di detenzione della regione (il suicidio di un giovane a Sollicciano, la fuga di due reclusi da un’ala fatiscente del «Don Bosco» di Pisa; un maxirogo nell’Istituto minorile di Firenze) hanno fatto aprire un «Dossier» al nuovo ministro della Giustizia Paola Severino, al direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria Franco Ionta ed al suo vice, Simonetta Matone. La situazione (Situazione carceri toscane (31 dicembre 2011) richiede interventi urgenti e la ricerca di ulteriori misure alternative, sollecitati anche dal presidente della Cet e Arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, che ha denunciato con parole dure il problema del sovraffollamento. Problema che di fatto «impedisce alle carceri di essere luogo di recupero, comportando invece il venir meno di diritti inalienabili della persona umana e l’affermarsi di un contesto diseducativo». L’esplosione del sistema-carceri è racchiusa in pochi dati significativi.

Al 31 dicembre 2011 erano 4.242 i detenuti rinchiusi nelle carceri toscane, ben 1.200 in più rispetto alla capienza regolamentare. Una situazione che riflette del resto il pesante quadro nazionale: 66.897 reclusi, ventimila in più del consentito. Contesto drammatico, ben noto al Garante dei diritti dei detenuti nominato nel luglio scorso dalla Regione Toscana, il dottor Alessandro Margara che alle problematiche carcerarie ha dedicato gran parte del mezzo secolo passato in Magistratura.

Dottor Margara, dalle carceri toscane arrivano segnali inquietanti. Il sovraffollamento ha superato da tempo i limiti dell’emergenza e soprattutto della dignità umana. È proprio vero che i nostri istituti di pena – mi perdoni il termine forte – sono sempre più delle «discariche»?

«La risposta, purtroppo, non può essere che affermativa. Il sovraffollamento è generalizzato. Quello nazionale è del 152% e siamo secondi in Europa, dietro la Bulgaria, prima con il 155%. Ma nella nostra regione, con Firenze-Sollicciano si arriva ad oltre il 200%. Altra spia sono i suicidi, uno avvenuto di recente proprio a Sollicciano. Al sovraffollamento si risponde con i letti a castello, che possono rialzare la capienza in misura sostanzialmente indefinita. Questo in violazione dell’art. 5 dell’Ordinamento penitenziario, il quale impone che le carceri debbano consentire presenze di detenuti modeste, in modo da poter conoscere a fondo le situazioni e le vite personali dei presenti. Cosa ormai impossibile, così che la detenzione diventa solo contenzione senza alcuna conoscenza di bisogni e senza possibilità di intervenire. Ovverossia una discarica per persone che hanno alle spalle già forti deficit sociali».

Qualche dato per aggiornare ed inquadrare la situazione. Nella nostra regione quali sono le realtà più pesanti ed intollerabili?

«Tutte le carceri delle città toscane grandi o medio-grandi hanno situazioni gravi. Di Firenze-Sollicciano si è già detto, ma a Pisa, Lucca, Massa, Pistoia ed anche nelle case di reclusione (ad esempio San Gimignano o Prato, divenuto una casa di reclusione di fatto), quelli con pene modeste riempiono gli istituti, che dovrebbero essere destinati a detenuti con ergastoli e pene elevate».

C’è stato forse un irrigidimento della Magistratura di sorveglianza?

«È pacifico che la Magistratura di sorveglianza si sia data regole che cercano di difendere la pena da quella che un tempo era una gestione impegnata e generosa della vecchia magistratura di sorveglianza, che aveva concorso all’approvazione della legge Gozzini. Ma è altrettanto pacifico che ci sia stata una restrizione della normativa, che ha concorso al sovraffollamento. Le leggi sono ben identificate: la Bossi-Fini sulla immigrazione, la Fini-Giovanardi sugli stupefacenti e la Cirielli sulla recidiva».

Sotto accusa è il modello penitenziario italiano, non certo migliore di quello europeo e del modello statunitense. Lei ha studiato queste esperienze: cosa ci suggeriscono?

«Il campione mondiale di carceri piene sono gli Usa. Però, anche lì c’è qualche segno di ripensamento e di marcia indietro. Una corte della California ha ordinato all’Amministrazione penitenziaria di scarcerare 40 mila detenuti a tempi brevi. In Europa i principi sono difesi a vari livelli e rispondono ai nostri principi costituzionali, ma una corte costituzionale tedesca ha sancito che non si può disporre l’arresto di un detenuto in carcere, se non risulta che questo rispetti le regole europee sul trattamento dei detenuti. La Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per detenzione contraria a umanità e degradante: lo ha fatto riferendosi alla situazione di sovraffollamento del 2003, quando i detenuti erano meno di 60 mila, mentre ora, nelle stesse condizioni di accoglienza sono ormai 68 mila. Nel 2011 l’aumento di detenuti sembra si sia bloccato. Perché? I nuovi arresti si sono fermati a quota 64 mila, mentre negli anni precedenti supervano o erano prossimi a 90 mila. La quota degli arrestati tossicodipendenti interessa circa l’80% dell’intero numero di arrestati».

Di fronte ad una detenzione carceraria così elevata, immagino ci vogliano interventi di edilizia ma soprattutto riforme legislative piene, non basta cambiare i codici. Altrimenti non se ne esce…

«Il nuovo ministro ha “riscaldato” le riforme già fallite: non hanno diminuito il sovraffollamento, se non riducendo il contrasto di polizia, come ho detto prima (minori arresti di oltre 25 mila persone). Si è abbandonata l’idea di un monumentale piano carceri, si è scelto il miglioramento del patrimonio edilizio esistente. Fra le carceri delle città medio-grandi (l’esempio di Livorno, che non ho citato prima) è significativo. La struttura delle “Sughere” è messa molto male e da sempre la Direzione dell’istituto ha chiesto interventi. Ebbene: una visita ministeriale ha disposto la chiusura dei padiglioni centrali di alta e media sicurezza. Il carcere si “ritira” nelle parti dell’edificio rimaste solide (almeno si spera), con una sopravvivenza di circa un centinaio di posti. Nel frattempo, a Livorno è stato costruito un nuovo padiglione: speriamo, come pare, che il problema dei settori pericolanti non sia dovuto al terreno su cui sorge l’istituto. Se fosse così, non saprei come andrebbe a finire».

Da dove partirebbe per cambiare le cose?

«Non ne ho idea. I responsabili della gestione carceraria hanno portato la situazione a questo approdo. Le leggi sono quelle che sono e ne abbiamo detto tutto il male possibile. Chi, in questo momento, ha voglia di cambiarle? Se la domanda è: da dove si partirà? La risposta è: rimarremo fermi».

Il nuovo ministro della Giustizia, Paola Severino, ha già predisposto un piano per introdurre misure alternative al carcere. A parte le polemiche sull’uso delle camere di sicurezza e sulla carcerazione domiciliare, c’è però chi ha accusato il Guardasigilli di aver avuto poco coraggio. Condivide questo pacchetto di provvedimenti? Come lo integrerebbe per renderlo più funzionale?

«In parte le ho già risposto prima. L’allargamento delle misure alternative della detenzione domiciliare riguarda solo la Legge 199 del 2010, di cui si amplia l’entità della pena ammissibile da un anno a 18 mesi. Si potrebbe dire soltanto che c’era già nella legge la stessa misura per le pene fino a due anni, con un limite legato alla “Cirielli”. Invece di modificare quest’ultima normativa (cosa che pare impossibile, mentre basterebbe un po’ di voglia e un semplice tratto di penna), la legge 199 aveva aumentato la pena per evasione in misura cospicua a chi è in detenzione domiciliare. Comunque con serenità posso dire che con la “199” si compensa la tentazione dei magistrati di sorveglianza di non dare le misure alternative che, in molti casi, potrebbero concedere».

Sulle pene alternative c’è però chi frena, evocando problemi di sicurezza. Sono paure giustificate? Possiamo definire sicure le città toscane, anche dove più pesanti e aggressivi sono i flussi di immigrazione?

«Una ricerca fatta nel 2006 dalla Direzione generale Esecuzione penale esterna (che segue le misure alternative) ha dimostrato che per chi utilizza la misura più ampia dell’affidamento in prova la recidiva, in sette anni, è stata del 19%; per chi finisce la pena in carcere la recidiva è stata invece del 68,5%. È pacifico che il rendimento delle misure alternative è buono. Tant’è che, come si ricava dalla stessa ricerca, chi è in misura alternativa commette un altro reato nello 0,25% dei casi. Vuol dire che in due casi e mezzo su mille un affidato commette un reato. Mi chiede se queste misure sono la causa dell’insicurezza regionale? Come vede, l’analisi di questi dati lo smentisce. Ma poi, c’è veramente un problema di sicurezza nella nostra regione?».

«La Regione Toscana ha istituito da pochi mesi la figura del “Garante dei diritti dei detenuti”. Le è stato conferito questo incarico e così ha trasferito nel nuovo Ufficio l’impegno arricchito dalle esperienze fatte in oltre 50 ani dedicati alla magistratura, alla Sorveglianza ed alla direzione generale degli Istituti di pena. Qual è il suo programma?

«Questa è la domanda più difficile. Che cosa posso fare? Si cerca di rispondere alle tante lettere che pervengono dalle varie carceri toscane e di avere un quadro preciso di quali diritti non vengono rispettati. Il quadro è desolante e le cose da fare sono quelle che si ricavano dalle analisi appena fatte. Tenendo conto di quanto ho detto quando mi ha chiesto da dove si potrebbe partire».

Il Garante non dovrebbe essere a mani vuote. Il Governatore Rossi ha stanziato 650mila euro per realizzare le prime misure alternative e di prevenzione per i detenuti con problemi di dipendenza da alcol o droga. Bisogna infatti aver presente che più della metà della popolazione carceraria è a rischio per malattie nervose e infettive.

«I programmi già varati dalla Regione e quelli che la Giunta intenderà realizzare in futuro non possono essere gestiti dal Garante. Spero, quindi, che questi impegni trovino altri canali di attuazione. In quanto possibile, cercherò di fare spendere, da chi può, i fondi messi a disposizione».

Ci vorranno poi risorse più consistenti per altri progetti mirati? «Mi sembra ovvio. È d’obbligo una risposta affermativa, in questo Paese in cui le risorse purtroppo mancano per tutto. E il carcere, sicuramente, non è messo tanto bene».

Da qualche anno si cerca di abbattere almeno in parte il Muro che separa la società fiorentina da Sollicciano, Il «Don Bosco» da Pisa e «Le Sughere» dalla comunità di Livorno. Città e carceri incominciano a parlarsi. Il merito è di alcune Istituzioni come la «Fondazione Giovanni Michelucci» – da lei presieduta fino all’assunzione dell’incarico di Garante – che operano per accorciare queste distanze, per creare all’interno degli Istituti di pena attività formative e di assistenza, ed all’esterno centri di accoglienza e di reinserimento per gli ex detenuti. Esistono ulteriori spazi di impegno per il Volontariato?

«Parole sante! Ma come la mettiamo con la domanda che mi ha fatto sulle paure e sulla presunta insicurezza dei toscani? Ritrovare la via della solidarietà, ritrovare i valori costituzionali sulla pena: è tanto necessario quanto difficile. Visto che ha citato Michelucci, vorrei ricordare quanto amava ripetere: “Il mio interesse fondamentale non è il carcere, ma la città: una città in cui il carcere non sia compreso né come concetto, né come luogo”. Così spiegava, a quanti se ne meravigliavano, il suo interesse per il carcere, che lui vedeva simbolicamente come la più insuperabile delle barriere che si andavano moltiplicando nel tessuto urbano. Dalla sua e da altre testimonianze è fortunatamente scaturito l’impegno di tanti volontari ad attivare e tenere costantemente aggiornato l’Osservatorio sulla situazione carceraria in Toscana, che alimenta la riflessione storica e attuale sull’architettura penitenziaria, sul sistema dell’assistenza sanitaria nelle carceri, sulla rete di accoglienza degli ex detenuti, sulla condizione delle donne detenute con bambini».

Alessandro Margara, il magistrato anti-sbarre La Toscana ha dato una forte impronta alla politica carceraria attuata in Italia negli ultimi 30 anni. Se il senatore fiorentino  Mario Gozzini  (per la legge che porta il suo nome approvata nel 1986 da tutti i gruppi parlamentari ad esclusione del Msi)  fu definito “il padre delle misure alternative alla reclusione”,  Alessandro Margara, massese di nascita,  è stato sicuramente il magistrato che più di ogni altro, con competenza,  sensibilità ed equilibrio  ha saputo interpretare ed affermare la prevalenza della funzione rieducativa della pena, dando piena attuazione all’art. 27 della Costituzione, che vieta una detenzione senza il rispetto dei diritti umani. Lo ha dimostrato appena entrato negli organici della Giustizia (1958 ) come giudice istruttore a Ravenna  e poi dal  1965 a Firenze; ma soprattutto dal 1976 quando ha incominciato ad occuparsi della Sorveglianza – anche come presidente dell’apposito Tribunale – prima a Bologna e poi dal 1980 ancora nel capoluogo toscano.  Toccando  l’apice quando per due anni (dal 1997 al 1999) è stato chiamato alla Direzione generale dell’amministrazione penitenziaria. Uno studioso del diritto applicato  all’espiazione della pena che ha saputo fornire al Parlamento, al Csm  ed alle Regioni proposte concrete ed innovative per  migliorare le condizioni igienico-sanitarie e di vita nelle carceri, favorire il reinserimento degli ex detenuti nella società, per la riforma ed il superamento degli istituti psichiatrici giudiziari (a partire da quello di Montelupo Fiorentino, oggetto di inchieste ministeriali e giudiziarie);  progetto quest’ultimo presentato alle Camere dalla Regione Toscana.

Lasciata la Magistratura, Margara non ha interrotto la sua missione.  Assumendo nel 2002 la presidenza della Fondazione Giovanni Michelucci (il grande architetto ideatore di quel «Giardino degli incontri»  a Sollicciano, punto di contatto tra i detenuti e i loro familiari nell’orario delle visite)  ha contribuito a tenere alta la tensione civile  verso i problemi dell’edilizia carceraria e il crescente sovraffollamento delle strutture determinato dall’ingresso massiccio dei tossicodipendenti e dei segmenti di immigrazione coinvolti nell’illegalità. Con ricerche e un monitoraggio attento e costante di  un «itinerario» che va  dal carcere al territorio, dalla periferia penitenziaria alle situazioni che nel cuore delle città toscane producono marginalità, disagio, devianza. E quando la Regione Toscana nel luglio scorso ha finalmente  deciso di istituire la figura di un «garante dei diritti dei detenuti»,  la designazione del dottor Alessandro Margara è apparsa alle forze politiche e sociali la scelta più naturale ed opportuna.

Al «Dogaia» si va a scuola con i volontari del «Gruppo Barnaba»di Damiano Fedeli

Sono più di vent’anni che il Gruppo Barnaba è impegnato nel carcere della Dogaia a Prato per il riscatto sociale, attraverso l’istruzione, dei detenuti. Era il luglio del ’91 quando il direttore della casa circondariale pratese – entrata in funzione nell’86 come carcere speciale per far fronte all’emergenza terrorismo – si rivolse tramite la Caritas all’Unione cattolica insegnanti medi. E fu proprio la presidente, Lina Bellandi, a costituire con alcuni colleghi e volontari che già dall’88 prestavano servizio alla Dogaia, il primo gruppo di insegnanti per l’attività scolastica in carcere.

«Abbiamo vissuto esperienze bellissime sotto il profilo umano – racconta ora la Bellandi – e tanti ex detenuti ci sono affezionati; adesso che sono usciti dai giri della delinquenza e vivono sereni, a volte, tornano a trovarci e noi siamo soddisfatti dei risultati ottenuti. Molti i riscontri positivi: diversi si sono anche laureati».

«Senza queste signore, la scuola in carcere non ci sarebbe mai stata», ama ripetere l’ex direttore del carcere pratese, Amato Gesumino Dessì, riferendosi alle volontarie del Gruppo Barnaba. Oggi, proprio grazie all’istruzione, la Dogaia rappresenta per molti versi un carcere modello. Qui sono presenti i diversi gradi di istruzione scolastica, dalla scuola dell’obbligo (per i detenuti di ogni reparto: media sicurezza, alta sicurezza, collaboratori, inclusa la sezione protetta), all’istruzione secondaria, fino all’università. L’attività didattica è suddivisa in quattro gruppi di classi: analfabeti, principianti, intermedi e avanzati, oltre al gruppo di consolidamento della lingua italiana. Nel reparto dell’alta sicurezza opera la succursale dell’Istituto tecnico commerciale Dagomari, mentre nel reparto della media sicurezza è presente il Professionale Datini. Vi è poi una sezione con 23 celle singole in cui si trovano persone che hanno intrapreso studi universitari a Firenze. È il progetto «Polo Universitario Penitenziario» nato con un protocollo d’intesa tra università di Firenze, Regione Toscana e Amministrazione penitenziaria nell’anno accademico 2000/01.

Il gruppo Barnaba, proprio alla fine del 2011 si è rinnovato, con un’identità vincenziana e nuovi volontari. Spiega ancora Lina Bellandi, che fa parte anche dei Gruppi di volontariato vincenziano: «Pensavamo, con il tempo, di esaurire il nostro impegno, se non altro per anzianità, visto anche che per la scuola non eravamo più necessari; invece, essendo raddoppiati i detenuti, dei quali molti sono stranieri, le esigenze di supporto da parte del volontariato non sono venute meno e anche il Vescovo Simoni ci ha invitati a restare».Ora, anche con il supporto del nuovo cappellano, don Enzo Pacini, il gruppo svolge diverse attività: colloqui di sostegno, accompagnamento, accoglienza presso la casa di che il gruppo gestisce a Maliseti e anche servizio guardaroba. Lo scorso novembre, per fornire ai volontari una preparazione specifica, i Gruppi di Volontariato Vincenziano e il Gruppo Barnaba hanno promosso un breve corso introduttivo al volontariato in carcere. Il titolo: «L’altra città».