Vita Chiesa
La parrocchia del futuro ha un volto missionario
Il documento sarà presto consegnato alle comunità ecclesiali, dopo alcune integrazioni. «La Chiesa italiana – hanno affermato i Vescovi nel comunicato finale dell’assemblea – ritiene di non poter fare a meno della parrocchia, sia per il suo legame con il territorio e il radicamento popolare sia per il richiamo a un processo di rinnovamento della pastorale che vede la parrocchia protagonista attiva della nuova evangelizzazione e impegnata a riappropriarsi del suo volto missionario». La parrocchia è ancora essenziale, dicono i Vescovi, ma deve essere «ripensata».
Monsignor Meini, cosa devono fare, in concreto, le parrocchie per riscoprire il loro volto missionario?
«La risposta è affidata al coraggio e alla fantasia delle singole comunità. L’importante è superare gli steccati, i confini consueti dell’attività pastorale, intraprendere nuove strade. Gli ambiti in cui lavorare possono essere tanti. Un maggiore coinvolgimento delle famiglie, aiutandole nei loro momenti più difficili, ad esempio nei rapporti con i figli adolescenti. Un’attività caritativa intelligente, che riesca a coinvolgere ed animare tutta la comunità. Un altro elemento da curare di più è la predicazione nelle grandi feste, Pasqua, Natale, ma anche comunioni e cresime, quando le chiese si riempiono. E poi promuovere i gruppi di ascolto e i gruppi di lettura del Vangelo nelle case. Un’altra cosa importante potrebbe essere la presenza di messaggeri del Vangelo in ogni strada: persone che si incaricano di fare da tramite tra la parrocchia e la gente, portando avvisi, idee, proposte».
Il documento parla di «pastorale integrata»: ci può spiegare cosa significa?
«Significa che non c’è più spazio per l’autosufficienza, per la parrocchia fai da te. Oggi è il momento delle sinergie, si devono unire le forze tra parrocchie vicine, con le associazioni, i movimenti. Si possono pensare, ad esempio, percorsi paralleli, con momenti comuni all’inizio e alla fine; progettare insieme le attività di catechesi, coordinare gli interventi caritativi, uniformare il modo di vivere la liturgia. Questo non vuol dire mortificare le tradizioni e le peculiarità di una singola comunità, ma valorizzarle all’interno di un cammino più ampio».
Uno degli inviti rivolti alle parrocchie è anche quello di sperimentare la cosiddetta «pastorale d’ambiente», la presenza nei luoghi di vita, di lavoro, nelle scuole, negli ospedali…
«Se le parrocchie restano chiuse nelle sacrestie e nelle canoniche, avranno poco futuro. La presenza della parrocchia sul territorio deve allargarsi in tutte le direzioni. Questo oggi va fatto in maniera diversa da come lo si poteva fare venti o trenta anni fa, affidandosi ad esempio alla testimonianza cristiana di chi quotidianamente opera nei diversi ambienti».
Per diventare comunità missionarie le nostre parrocchie devono vincere prima di tutto una certa «timidezza», trovare il coraggio di mostrarsi all’esterno. È d’accordo?
«Le parrocchie devono evitare, come ha detto qualcuno, di stare a guardare il proprio ombelico. Bisogna far giungere l’annuncio cristiano a persone che magari sono lontane dalla Chiesa, ma che sono disposte ad ascoltare. In questo ho molta fiducia: se contiamo quante persone vengono in Chiesa, diciamo che i cattolici sono una piccola minoranza. Ma se guardiamo al cuore delle persone, sono certo che sono molti di più. Si tratta di parlare a queste persone».
Da quanto è emerso nell’assemblea della Cei, le sembra di notare per quanto riguarda le parrocchie una situazione particolare nella nostra regione rispetto alle altre?
«A volte si pensa alla Toscana come a una regione dalla bassa frequenza religiosa: in realtà, ascoltando gli interventi, non mi sembra che le cifre siano molto diverse: la nostra situazione è simile, in generale, a molte altre. Senza contare alcuni punti di forza: chi frequenta le nostre parrocchie in genere non lo fa per tradizione, lo fa perché ha fatto una scelta matura, convinta. Abbiamo un laicato preparato, caratterizzato da una fede sincera, purificata: c’è uno stile di essere Chiesa che lascia ben sperare».
Non c’è il rischio, don Walther, di trasformare anche la messa in un momento di «routine»?
«Il rischio c’è, e proprio per questo uno degli intenti di fondo del convegno è di non limitarsi a vivere la domenica come un’abitudine, o come momento semplicemente rituale, ma come una giornata diversa: uno spazio di incontro, di relazione, di libertà dalla routine grazie alla scoperta della propria originalità cristiana. Riscoprire la propria identità a partire dall’Eucaristia: è questo il frutto più bello del giorno del Signore, che poi deve tradursi per ciascuno di noi in un modo di essere nella realtà ordinaria, nella comunità, nel territorio, nel mondo».
Che legame c’è tra parrocchia, Eucaristia ed annuncio?
«Tradurre la centralità del momento eucaristico nella vita concreta delle nostre parrocchie vuol dire innanzitutto vivere il giorno del Signore non tanto come preoccupazione a una obbedienza di precetto, quanto piuttosto riscoprire il valore della messa come espressione che crea l’esistenza cristiana. Senza la domenica non possiamo dirci cristiani: la messa è in qualche modo il nostro ‘motore’ interiore, il fulcro delle attività parrocchiali e del legame tra catechesi e annuncio, in una comunità parrocchiale letta non solo come comunità chiamata a stare insieme, ma ad andare in missione. Senza rinchiudersi in un recinto consolatorio, ma divenendo capace di accoglienza e reagendo alla fatica e alla tentazione della sfiducia».
Quali priorità indicherebbe?