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Rubrica: Risponde il teologo

20 Marzo 2016

La Chiesa ammette la teoria della preesistenza delle anime?

di Redazione Toscana Oggi

Monsignor Leonardo Sandri (oggi cardinale) nell’annunciare la morte di Papa San Giovanni Paolo II usò l’espressione «è ritornato alla casa del Padre». Espressione molto bella che è usata da molti: anche su Toscana Oggi del 13 ottobre scorso in un articolo sulla morte di Manlio Cancogni, e ancora dalla Misericordia nell’annunciare la morte dei suoi confratelli. Ma ritornare alla casa del Padre non è «preesistenza» condannata nel 553 nel II Concilio di Costantinopoli?  È cambiato qualcosa o siamo tutti scarsi in Storia della Chiesa?

Antonio Tognetti

Non mi risulta che il II Concilio di Costantinopoli, del 553 d.C., condanni la teoria della reincarnazione, ma la apocatàstasi, cioè la reintegrazione. Comunque essa viene condannata nel V Sinodo di Costantinopoli del 543 che fa sua una dichiarazione di Giustiniano I, imperatore, contro Origene: «Contro chiunque dichiari o pensi che l’anima umana preesistesse, … e sia pertanto divenuta anima, precipitando per castigo nel corpo, anatema sia» [Canone 1 «Si quis fabulosam animarum preexistentiam… A.S.», Denz.-Schon. n° 403], e approvata da papa Vigilio.

Reincarnazione dice più o meno la stessa cosa di metempsicosi (meta+empsichoô: oltre+vivifico=animo-oltre): teoria che ritiene che le anime, essendo eterne, alla morte del corpo, nel quale sono temporaneamente alloggiate, passano ad animare un altro corpo.

Il lettore sentendo la formula eufemistica: «ritornare alla casa del Padre», l’abbina a Dio che è eterno e perciò l’anima che torna all’eterno non potrà essere che eterna, e dunque sarebbe preesistita in Dio prima della sua nascita corporale.

Ma, attenzione, una cosa è eterna quando non ha principio né fine, ma si può anche dire che una cosa è eterna quando una volta cominciata non ha più fine: il primo è il concetto assoluto di eternità, il secondo è il concetto relativo di eternità. L’anima appartiene a questo secondo modo di essere.

In filosofia si distingue la «causa essendi» dalla «causa fiendi»: la prima è ciò che causa l’effetto e permane come causa attiva perché l’effetto possa esistere (per esempio l’elettricità è causa essendi della luce della lampada); la seconda è ciò che è causa del sorgere dell’effetto, ma poi se ne distacca e l’effetto permane autonomo (per esempio i genitori sono causa fiendi del figlio).

Quando un uomo nasce i genitori e Dio cooperano all’unisono: i genitori producono il corpo vivente ma la «forma» di quella vita che nasce è data dal soffio di Dio. Quel soffio che è fa di quella vita «un figlio di Dio», unico e non confuso. San Paolo sembra dirlo (cf. 1 Ts 5,23) quando divide l’uomo in spirito, anima e corpo, quasi che lo spirito sia quel timbro speciale che Dio imprime nell’anima e la rende unica e assoluta sua figlia, spirito che mai più lascerà quell’uomo che nasce e quando muore «torna alla casa del Padre» perché dal cuore e dall’amore di Dio esso è scaturito. Per l’eternità l’immagine che Dio stampa di se stesso nel volto umano, è la causa essendi della vita eterna nella quale ogni anima entra a far parte dalla nascita.

È questa intimità tra Dio e l’anima che respinge ogni reincarnazione, palingenesi, metempsicosi e stupidaggini varie. L’uomo risorgerà nel e col suo corpo perché quel corpo ha portato in se stesso, materialmente, il volto e l’immagine di Dio: chi vede un uomo vede Dio, come dice Gesù «chi vede me vede il Padre». Sebbene il nostro volto sia deturpato dal peccato, tuttavia quello stampo dell’anima a immagine di Dio non si cancella, e il volto di ogni uomo è testimone fermo e certo della presenza reale e attiva di un’anima che Dio gli ha dato per l’eternità. Sicuramente ogni uomo che nasce somiglia ai genitori, ma potremmo dire meglio che è l’immagine di Dio, e per immagine intendo la parola «icona» che in greco indica l’esatto autoritratto, la vera e propria riproduzione del modello. Dunque l’espressione ritornare alla casa del padre indica l’idea molto semplice di tornare dai propri genitori, come quando nei litigi la moglie dice: torno da mia mamma! Cioè da colei che l’ha generata, così tornare alla casa del Padre significa tornare dal vero e principale Genitore che è il nostro Creatore.

Ma noi cristiani diciamo qualcosa in più. Il battesimo ci fa «figli» di Dio. Esser figli significa che in qualche modo Dio stesso ci ha «generato», perciò Dio per noi non è il Padre Celeste, ma il «babbo-abbà» esattamente colui che ci ha messo al mondo. Infatti prima del «Padre nostro» nella Messa, il prete dice: «…osiamo dire». Che c’è da osare? Perché «osiamo»? L’ammonizione vuol dire questo: chiamare Dio «babbo» per noi sarebbe una bestemmia. Dio è il Babbo di Gesù non il nostro. Insomma per noi umani dire a Dio babbo sarebbe come se io chiamassi babbo mio il papà di Obama. E così il prete ci vuol dire: un attributo del genere – Abbà – a Dio mai e poi mai lo diremmo proprio per non essere blasfemi, ma siccome Gesù stesso ce l’ha ordinato di usarlo, ebbene noi osiamo dire a te, Dio, che sei il nostro Babbo. Dunque il Battesimo ci genera di nuovo, di una generazione che è divina e fa sì che noi possiamo sentirci della stessa «natura di Dio» perché da lui generati, e perciò per i cristiani quando muoiono dovremmo dire: è tornato alla casa di suo Babbo. Si comprende allora che l’anima, una volta «creata» alla nascita e «ri-generata» nel battesimo, non muore più e in questo senso è eterna, senza necessariamente scomodare preesistenze che non hanno senso in ragione della unità sostanziale col corpo, col quale forma la persona umana.

Athos Turchi

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