NON LASCIARMI

DI FRANCESCO MININNI
Chi può pensare di mettere un limite agli orizzonti della scienza? Nessuno, perbacco. In fin dei conti l’uomo è su questa terra per cercare, indagare, scoprire, progredire, inventare. Ma non per creare. Con tutte le sue capacità, questo non gli è consentito. Se no, che differenza ci sarebbe tra la creatura e il creatore? Ecco, il limite è quello: astenersi da tutto ciò che, per presunzione o curiosità o mania di grandezza, potrebbe creare un aperto conflitto con Dio. Dare la vita, ad esempio, come già ci ha insegnato il professor Frankenstein, non è una prerogativa dell’uomo: l’uomo può procreare, non creare.
E’ un problema che si è posto lo scrittore giapponese Kazuo Ishiguro nel romanzo «Non lasciarmi», adesso tradotto in film da Mark Romanek su sceneggiatura di Alex Garland. Ma, a quanto pare, tutti lo hanno fatto incorrendo in una serie di ambiguità e contraddizioni che non giovano al risultato finale. «Non lasciarmi» è un film anche toccante, sotto certi aspetti piuttosto profondo e sicuramente con le carte tecniche in regola. Ma nel suo insieme dà l’impressione di un trust di cervelli che, alla fine, non avevano ben chiaro l’argomento del contendere.
Il college di Hailsham, in Inghilterra, ha alcune interessanti peculiarità. Ai ragazzi non è consentito varcare i confini della scuola, foss’anche per pochi metri. Ai ragazzi non è consentito fumare. Non esistono visite da parte dei genitori. Al termine del corso preparatorio i ragazzi sono inviati in strutture predisposte dove ha luogo il secondo stadio dell’educazione. Infine, l’ingresso nella vita pubblica corrisponde a una notifica di donazione di un organo. Ebbene sì, i ragazzi di Hailsham sono cloni che qualche facoltoso umano ha richiesto e pagato per cautelarsi da eventuali malattie che richiedessero un trapianto o la sostituzione di un organo difettoso. E per i ragazzi non esistono né scelta né alternativa: la loro vita, ragionevolmente breve se misurata in anni, potrà arrivare al massimo alla terza donazione, dopo di che il percorso sarà completato.
Tutto questo, naturalmente, esclude la possibilità che i soggetti esprimano una volontà diversa da quella prevista. Dovranno prenderne atto prima Ruth, poi Katie e Tommy quando sarà il momento di completare il percorso.
Mark Romanek, già autore di «One Hour Photo», è un evidente pessimista, grande ammiratore di Kubrick e sapiente creatore di atmosfere inquietanti con mezzi del tutto naturali. Ha, ad esempio, l’ottima idea di inserire una tematica evidentemente fantascientifica in un contesto assolutamente realistico, in modo da farla sembrare una riflessione su qualcosa già in atto da più di mezzo secolo. Dimostra anche un ottimo fiuto nella scelta degli attori: Carey Mulligan, Keira Knightley e Andrew Fleming rispondono al meglio alle caratteristiche dei rispettivi personaggi riuscendo, soprattutto nel caso di Fleming, ad uscire vincitore dalle molte difficoltà di un personaggio assai complesso, e trovano adeguato riscontro nei corrispettivi adolescenti Ella Purnell, Isobel Meikle-Small e Charlie Rowe.
Il tutto, però, sembra più politicamente scorretto e polemico che umanamente sentito. Soprattutto perché, pur di colpire il bersaglio, Romanek, Ishiguro e Garland danno per scontata una cosa sbagliatissima: che un clone possa essere una creatura dotata di anima e sentimenti, quindi che tra l’uomo e Dio non esista più alcuna linea di demarcazione. Così questa sorta di Frankenstein postmoderno che non disdegna echi vicinissimi di tematiche orwelliane non riesce a convincerci fino in fondo soprattutto per difetto d’informazione. Va da sé che l’indice puntato contro una scienza colta da delirio di onnipotenza e una classe politica acquiescente è un dovere civile e umano da approvare senza esitazioni. Ma non a patto di accettare un pacchetto che ci porterebbe a dare per scontate cose che ancora sono tutt’altro che definite e chiare.