IL PROFETA

DI FRANCESCO MININNI

Una volta c’erano l’educazione sentimentale, l’educazione sociale, l’educazione alla vita. In realtà ci sono ancora, ma a guidare le danze sembra oggi l’educazione criminale. Ovvero, come un ingenuo, debole, emarginato, ma intelligente e ricco di spirito d’osservazione possa non solo sopravvivere all’interno di un sistema violento e selettivo, ma addirittura ritagliarsi uno spazio di grande rilevanza diventando un boss temuto e rispettato.

Il tutto, naturalmente, fino a quando una pallottola giusta al momento giusto (o sbagliata al momento sbagliato) non metterà la parola fine lasciando il posto a qualcun altro. «Il profeta» di Jacques Audiard gioca le proprie carte su questa tematica semplice, cinica, fatalista e, a dirla tutta, non particolarmente originale. L’ascesa di Michael Corleone nella saga de «Il padrino», il ragazzino napoletano de «I guappi», il malavitoso portoricano di «Carlito’s Way», il cubano Tony Montana di «Scarface» (guarda caso: tre su quattro interpretati da Al Pacino) e chissà quanti altri costituiscono un precedente consistente.

La differenza sta nel fatto che Audiard sceglie un’ambientazione quasi interamente carceraria e un protagonista arabo praticamente analfabeta che, guardando e ascoltando, impara tutto, ne fa tesoro ed esce dal carcere potente, con tre limousine ad attenderlo e con la glaciale freddezza di chi sa di non potersi fidare di nessuno ma anche di avere abbastanza forza per costruirsi un castello fortificato.

Si comprende bene la tematica di Audiard. Si fatica di più, tuttavia, a capire i perché di un successo straordinario: Grand Prix a Cannes, l’Oscar europeo al protagonista Tahar Rahim, 13 candidature ai César, la candidatura all’Oscar come miglior film in lingua straniera. Perché, se è vero che la buona idea di Audiard è quella di abbracciare il realismo più spoglio, crudo e persino antispettacolare, riconducendo il film alle ragioni della realtà più che a quelle della finzione, è anche vero che l’autore non ha uno stile così impeccabile e solido che gli possa permettere di mantenere tutto il film al medesimo livello ottenendo un risultato che potrebbe chiamare in causa prima Jacques Becker («Il buco»), poi Jean-Pierre Melville («Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide»), infine Bertrand Tavernier («L’esca» e «Legge 627»).

In sostanza, «Il profeta» si dimostra opera interessante e indubbiamente con i piedi ben piantati in una realtà sempre meno rassicurante, ma allo stesso tempo non regge il ritmo di un racconto troppo dilatato nei tempi e, a nostro modo di vedere, scivola nella noia invocando qualche benefico taglio di metri superflui. Degli autori sopra citati, alla fine, Audiard evoca più il freddo realismo di Tavernier che i lampi del noir di Becker e Melville. Senza contare che la sua evidente mancanza di speranza (quindi di parametri morali ben delineati) lo porta alla rappresentazione di un universo popolato esclusivamente di assassini e vittime potenziali. Malik El Djebena, a tutti gli effetti un criminale probabilmente destinato a una fine precoce, non è un «cattivo» come abitualmente lo si intende: è piuttosto un poveraccio con un’intelligenza superiore alla media che di necessità fa virtù. Ovvero, ben sapendo che in una vita normale la sua razza e le circostanze avverse (tutte) non gli concederebbero alcuna chance, applica la propria intelligenza e le proprie capacità al crimine. Fa, cioè, l’unica carriera che un mondo violento e sbagliato gli permette di intraprendere. Se per questo sia lodevole o criticabile, dai procedimenti narrativi di Audiard non è dato percepirlo.

Bravi il protagonista Tahar Rahim, con la forza della sua inesperienza, e Niels Arestrup nei panni del boss còrso Luciani. A questo proposito, pare che il nome Luciani sia una scelta ironica di Audiard che avrebbe mutuato il cognome dal defunto pontefice Giovanni Paolo I. Pare anche che Djebena, in arabo, significhi «cimitero». E pare infine che, sempre secondo Audiard, nel personaggio di Malik ci sia qualcosa di angelico. Tutte cose che, stando alle dichiarazioni dell’autore, se non vengono colte non tolgono nulla al racconto. In questo non si può proprio dargli torto.

IL PROFETA (Un prophète) di Jacques Audiard. Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Hichem Yacoubi, Reda Kateb. FRANCIA/ITALIA 2009; Drammatico; Colore