Giubileo 2025

Giubileo Governanti: Nerozzi, “ripartire dalle relazioni”

“Ogni diffidenza o demonizzazione della politica dovrebbe essere messa da parte, come una forma di comoda ipocrisia. La politica, in ultima analisi, siamo noi e le nostre scelte (e non scelte!) condizionano inevitabilmente la vita della nostra comunità e la nostra stessa vita”. Lo sottolinea Sebastiano Nerozzi, professore di Storia del Pensiero economico all’Università Cattolica del Sacro Cuore e segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia, nell’imminenza del Giubileo dei governanti in programma oggi e domani.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Professore, il card. Zuppi durante la presentazione del volume “Al cuore della democrazia” che raccoglie gli Atti della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia ha affermato che a Trieste, l’anno scorso, “di speranza ce n’era tanta”, aggiungendo che “richiede un impegno perché non è onirica, è molto concreta”. Lungo questo 2025, Anno Santo della speranza, quali forme ha preso questo impegno? E quali altre sono in embrione?
La Settimana sociale ha dato tanti segni di speranza.

Coltivare la speranza non significa andare alla continua ricerca di nuove idee e nuovi entusiasmi, ma avere la pazienza di curare e nutrire i semi che sono stati gettati, riconoscendo l’importanza di ciò che si è ascoltato e ricevuto, come una ricchezza da custodire e rinnovare con la propria cura e il proprio impegno.

A Trieste abbiamo visto riscoprire l’alfabeto della partecipazione e anche la grammatica della partecipazione, nel suo farsi quotidiano, artigianale, gesto dopo gesto, passo dopo passo. Abbiamo visto rompere la barriera fra ecclesiale e civile, fra sociale e politico. Questo è stata l’esperienza dei villaggi e dei dialoghi delle Buone pratiche e delle Piazze della democrazia: connettere queste dimensioni distinte in modo nuovo, aprendo spazi di dialogo, ascolto e incontro con esperienze di vita, radicate nei territori, capaci di parlare in modo immediato a tutti. A Trieste abbiamo visto nascere reti, alleanze, dare respiro alle attività e alla presenza di un mondo cattolico che si appassiona ai problemi della città del territorio e vuole abitare lo spazio del civile e del politico. A Trieste abbiamo vissuto una dinamica sinodale di ascolto e dialogo. Nei laboratori della partecipazione sono state coinvolte quasi 1.200 persone in 44 gruppi. Un lavoro impegnativo, ma molto fecondo, che ha generato 19 raccomandazioni e 230 proposte. La sintesi di questo lavoro, realizzata da Giovanni Grandi e dalla sua equipe, ha richiesto un po’ di tempo ma è adesso disponibile e scaricabile dal sito web delle Settimane sociali e può essere ripresa da gruppi, associazioni, diocesi e parrocchie che desiderano

far sì che la speranza seminata a Trieste possa continuare a crescere.

Lei, sempre durante la presentazione del volume degli Atti, ha ricordato la volontà di contribuire a “ravvivare e curare il cuore della democrazia nel nostro Paese”. Perché questo è il punto nevralgico per contrastare disimpegno, sfiducia e atomizzazione che hanno intaccato larga parte della società italiana?

Abbiamo bisogno di ripartire dalle relazioni. La democrazia ha bisogno non solo di regole ma di senso di appartenenza ad una comunità, di fiducia reciproca, di disponibilità a fare la propria parte per il bene comune.

Questo atteggiamento positivo, generativo, che alimenta la democrazia e la rinnova continuamente, ha bisogno di luoghi e spazi dove poter essere coltivato, ha bisogno di comunità dove le persone possono vivere relazioni equilibrate e gratuite, dove ognuno si sente coinvolto come soggetto e trova modalità di ascolto e collaborazione con altri. Ora, i luoghi della nostra socialità quotidiana (associazioni, parrocchie, imprese, gruppi di quartiere, anche le chat se ben abitate) possono essere luoghi dove questa esperienza educativa e generativa viene compiuta e i fili della tela di cui la democrazia ha bisogno vengono continuamente tessuti e intrecciati. Come ha spiegato Annalisa Caputo a Trieste: sono le nostre “oasi della democrazia”, oasi dove è possibile attingere l’energia necessaria a metterci in cammino. Queste oasi vanno mantenute e fatte crescere, curando la qualità delle relazioni al loro interno, la qualità del dialogo e dell’ascolto.

Occorre aiutare le persone ad uscire dal loro senso di isolamento e sperimentare che ci sono luoghi dove non regna l’indifferenza, e che è possibile affrontare insieme i problemi che sono comuni.

Ma occorre anche evitare, come ci ha ricordato Mara Gorli, che le oasi diventino gruppi isolati e autoreferenziali: per questo

occorre aprirsi al dialogo con altre realtà, riconoscere il valore che emerge dai percorsi altrui e, se possibile, allacciare alleanze costruttive, nell’orizzonte del bene comune, che sempre supera la nostra esperienza particolare.

Unire le oasi tra di loro è l’unico modo di tracciare la strada che ci consente di attraversare il deserto.

Venticinque anni fa, in occasione del Giubileo dei governanti e dei parlamentari, san Giovanni Paolo II affermò che “occorre riscoprire il senso della partecipazione, coinvolgendo maggiormente i cittadini nella ricerca delle vie opportune per avanzare verso una realizzazione sempre più soddisfacente del bene comune”. Parole profetiche, la cui attualità è stata ribadita lungo tutto il processo generatosi con la 50ª Settimana sociale. Su questo fronte avete registrato aspettative e desideri, come procedere per far sì che non vadano delusi sia in ambito ecclesiale sia sociale?

La partecipazione è un’arte difficile, che si impara attraverso l’esercizio. Non basta la buona volontà. Essa richiede un metodo. Anche nella Chiesa.

L’esperienza del Sinodo ci ha educato a migliorare la nostra capacità di ascolto reciproco, a rispettare i tempi e i modi dell’altro, a imparare nuove modalità di incontro, passando da una logica del “convincere” a quella del “condividere” e “confermare”. La Settimana sociale si è posta in questa scia e ciò ha permesso di cogliere molti frutti, anche giungendo a individuare scelte e opzioni concrete. Ma occorre rimanere fermi nel metodo, superando la tentazione di ritornare a vecchie abitudini. Occorre meditare il detto evangelico: “Vino nuovo in otri nuovi”! Per questo abbiamo molto insistito sul fatto che diocesi, parrocchie e associazioni che vogliono offrire spazi di riflessione autentica e di partecipazione non si limitino a individuare temi importanti su cui riflettere, ma cerchino di creare spazi aperti alla cittadinanza (Chiesa in uscita!), adottino modalità di lavoro interattive e laboratoriali, coinvolgano relatori giovani e anziani, uomini e donne, accademici ma anche esperti e testimoni del territorio, attivino e valorizzino associazioni, buone pratiche, esperienze presenti sul territorio.

La partecipazione si crea partecipando!

Papa Leone XIV, spiegando le ragioni della scelta del nome, ricordando il Pontefice della “Rerum Novarum” ha affermato che “oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di Dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro”. E poi, incontrando i membri della Fondazione Centesimus Annus, ha ribadito che “c’è una domanda crescente di Dottrina sociale della Chiesa a cui dobbiamo dare risposta”. Come vi sentite interpellati da queste parole? E come aiutare ad essere attrezzati per affrontare queste sfide?
Per noi oggi è molto chiaro che la Dottrina sociale della Chiesa offre un riferimento sicuro e attrattivo per tante persone, ben oltre i confini visibili della Chiesa. Dopo il tramonto delle grandi ideologie e delle grandi narrazioni dei secoli XIX e XX,

la Dottrina sociale della Chiesa offre un pensiero a 360° sulla realtà dell’umano, orienta la politica verso obiettivi a lungo termine e valori di cui tanti comprendono l’importanza indipendentemente dalla loro appartenenza di fede. La Dottrina sociale è il frutto non di mode passeggere, ma di una sapienza che viene da lontano, maturata di generazione in generazione. L’errore più grave sarebbe, infatti, il pensare che la Dottrina sociale della Chiesa sia qualcosa di dato per sempre, una teoria da applicare poi alle singole situazioni.

In realtà essa cresce e si evolve nel tempo, a contatto con i problemi e i fenomeni emergenti nella società: essa si mostra capace di leggere “i segni dei tempi” e di adattare analisi, interpretazioni e proposte alle esigenze della contemporaneità, dialogando con le scienze naturali, umane e sociali e offrendo criteri di discernimento basati su una visione ben precisa dell’uomo e del suo rapporto con il mondo e con la storia. Non stupisce, dunque, che in un mondo sempre più frammentato e confuso, la Dottrina sociale desti ancora tanta attenzione. A noi laici, impegnati nel sociale, nella cultura, nella politica, il compito di meditarla continuamente per comprendere come essa illumina il nostro impegno quotidiano.

Lasciarsi illuminare dalla Dottrina sociale significa orientare pensieri e azioni verso la ricerca paziente, amorosa e rigorosa della verità, sapendo che la “realtà è superiore all’idea” e che è dalla nostra capacità di abitare e amare la realtà del nostro mondo, che saremo riconosciuti come testimoni credibili e gioiosi del Verbo incarnato.

Quale messaggio, alla luce dell’anno giubilare, si sente di rivolgere a chi oggi è impegnato, a vari livelli, nel governo della cosa pubblica? E a un giovane che coltiva il desiderio di servire il bene comune?
Chi serve la cosa pubblica ha oggi un compito difficilissimo e di grande responsabilità. Per questo, prima di tutto, dovremmo sempre esprimere gratitudine e rispetto per coloro che accettano di impegnarsi in ambito politico, soprattutto quando dimostrano di operare con una certa dose di gratuità, generosità e rispetto per gli altri. Oggi

abbiamo bisogno, prima di tutto, di depurare il linguaggio, liberarlo dalla logica della contrapposizione, del disprezzo e della partigianeria.

La dialettica del salutare confronto pubblico non dovrebbe mai travalicare certi limiti, perché il politico ha un ruolo pubblico e svolge, prima di tutto, un altissimo ruolo educativo e di testimonianza. Per questo lo stile personale e il linguaggio contano almeno quanto le idee e l’impegno efficace per il bene comune.
Ai giovani che desiderano servire il bene comune direi che le strade per poterlo fare sono davvero infinite e partono dal loro stile di vita quotidiano. Oggi abbiamo imparato sempre più che è possibile influenzare le scelte dei grandi poteri economici anche con le nostre scelte di consumatori, risparmiatori, imprenditori, lavoratori, contribuenti. Scegliere con attenzione il proprio lavoro ed esercitarlo con responsabilità, creatività e tensione etica è il primo passo, estremamente efficace, per servire il bene comune. La partecipazione parte proprio da qui e sfocia, naturalmente e necessariamente, anche nell’uscire dal proprio particolare, per fare alleanza con altri e avere cura della comunità a cui apparteniamo attraverso l’informazione, l’associazionismo, l’esercizio del voto e anche l’impegno personale in politica.

Lottare con altri per ciò in cui crediamo è l’antidoto migliore contro la noia, l’isolamento e la disperazione; un modo per trovare gusto, senso e significato alle nostre giornate; un bel modo di vivere la propria giovinezza.