Opinioni & Commenti
Scoop giornalistici ad arte per forzare sull’eutanasia
Ma se fosse così, se questa fosse la realtà degli ospedali italiani, sarebbe uno scenario terrificante. Nascosto dall’anonimato, un Caposala o, almeno, uno che si dichiara tale, ha confessato a Repubblica di essere stato testimone di ripetuti episodi che lui chiama, indistintamente, di eutanasia. Immediata la reazione di Luigi Marroni, assessore regionale per il Diritto alla salute: «In Toscana si rispettano le leggi … Di eutanasia nelle nostre strutture non se ne parla neppure». Non abbiamo elementi per verificare la fondatezza delle rivelazioni del sedicente Caposala, ma possiamo fare qualche valutazione sulle sue dichiarazioni come sono state riferite dalla stampa. Secondo il Caposala alcuni medici di Careggi, sollecitatati dai familiari, e con il consenso o il silenzio dei colleghi e del personale infermieristico, compirebbero atti contro la legge sopprimendo i malati in modo nascosto, con una «eutanasia silenziosa». Gli esempi che vengono portati, in effetti, equivocano su che cosa sia davvero eutanasia e su quali terapie un medico sia obbligato per legge a prestare.
Da quello che dice si potrebbe pensare che egli lavori in una terapia intensiva. Un uomo di 54 anni cardiopatico arriva al reparto con un grave edema. Dopo due giorni di tentativi terapeutici è chiaro che «non ci sono spiragli». Se si insiste con le terapie iniziate andrà avanti per qualche giorno, al massimo due settimane. I medici, d’accordo con i familiari, decidono di non insistere. Se le cose stanno così questa non è eutanasia, neppure eutanasia passiva. La sospensione di una terapia o di un sostegno tecnico che si rivelassero inutili di fronte al precipitare del malato verso una morte inevitabile, così come la decisione di non iniziarli affatto, quando la situazione fosse da subito chiaramente senza speranza, non sono forme di eutanasia. L’insegnamento cattolico su questo punto è esplicito (basti vedere il Catechismo al n. 2278). Il Codice di deontologia medica del 2014 all’art. 16 afferma che un medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere di per sé «un comportamento finalizzato a provocare la morte», espressione con cui viene indicata l’eutanasia.
Insomma i medici che si accorgono di scivolare nell’accanimento devono fermarsi. La legge vigente in Italia non obbliga certo i medici ad accanirsi. Una buona medicina non si ostina in atti inefficaci o, peggio, destinati soltanto a prolungare, spesso penosamente, la fase terminale di una malattia. Far credere alla gente che i medici siano obbligati all’accanimento o a praticare ogni terapia disponibile, significa creare allarme e timori infondati e serve a manipolare l’opinione pubblica per renderla incline ad accettare l’introduzione dell’eutanasia, quella vera, in Italia. Far credere che per essere sicuri di essere lasciati morire con dignità occorra fare il cosiddetto testamento biologico non corrisponde a verità. Il soggetto ultimo delle decisioni, se è consapevole, è il paziente stesso e, quando egli non potesse decidere, le dichiarazioni anticipate di trattamento potrebbero essere utili per orientare i medici e familiari o altri incaricati di prendere decisioni, ma il punto è se una persona possa ragionevolmente decidere di darsi la morte. Lasciar morire quando non c’è più niente da fare è atto di umanità autentica, dare direttamente la morte, anche se richiesti, è atto contro la persona e il rispetto della persona è fondamento del convivere civile.
Lo stesso Caposala entra nel tema della soppressione attiva dei pazienti. A Careggi, per fortuna, non si fa eutanasia attiva. «Nessuno ha parlato di iniezioni letali, la Svizzera e le Invasioni barbariche sono lontane». Le Invasioni barbariche sono, per chi non lo ricordasse, un film canadese del 2003 sul tema dell’eutanasia. Non ancora, almeno, perché egli continua: «Tra colleghi siamo d’accordo: Se capitasse a me e vedete che non c’è niente da fare, datemi una botta di morfina». Non si parla, ovviamente, della morfina somministrata a dosi terapeutiche, ma di dosi letali di morfina somministrate con l’intenzione diretta di dare la morte.
Il capitolo del dolore è, senza dubbio, il capitolo più inquietante per tutti noi. Il dolore si può forse sopportare con grande forza d’animo. Si può dare senso al dolore in una prospettiva di fede. Resta il dramma del dolore che supera l’umana capacità di sopportazione e che deve essere tolto o attenuato in modo sensibile, dispiegando ogni mezzo terapeutico a disposizione: le cure palliative contribuiscono alla umanizzazione della morte e – aggiunge il Catechismo al n. 2279 – sono atti di carità disinteressata. Occorre forse un impegno ancora più deciso, dal punto di vista delle risorse impiegate e della cultura medica, nell’ambito della medicina palliativa. Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale: il loro scopo non è, pertanto, quello né di accelerare né quello di differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità di vita possibile nel momento in cui la vita declina sino alla fine.
Un ulteriore aspetto agghiacciante emerge dal racconto del Caposala. I posti letto disponibili, soprattutto in reparti di elevato livello assistenziale, sono spesso inferiori al bisogno e liberare un posto letto in un reparto può risolvere situazioni di affollamento. Sarò un ingenuo inguaribile, ma mi rifiuto di pensare che ci sia un medico a Careggi che prende decisioni sulla vita dei suoi pazienti, non guardando al bene di ciascuna persona, ma tenendo d’occhio la gestione dei posti letto. Se si vuol dire che bisogna riservare un’assistenza più sofisticata e costosa a chi, in base alle oggettive condizioni cliniche, possa giovarsene davvero, questo potrebbe essere un discorso accettabile in vista di un impiego ragionevole delle risorse disponibili, ma sarebbe criminale liberare i letti con l’eutanasia dei pazienti che li occupano, operando scelte discriminanti.
A questo proposito, l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori, commentando l’intervista del Caposala (leggi qui), ha richiamato un’efficace espressione di papa Francesco e molto giustamente ha parlato, sdegnato, di una cultura dello scarto.
* ordinario di bioetica, consultore del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari