Cultura & Società

Cancogni: Non si può manomettere il dono che Dio ci ha fatto

L’anno scorso annunciammo che dopo quasi un decennio di stop, alla veneranda età di 95 anni, il noto scrittore e giornalista Manlio Cancogni, che vive in Versilia, tornava a scrivere per un giornale, il nostro. Ora, a quasi 96 anni, ecco un altro contributo per «Toscana Oggi».di Manlio Cancogni

Tra le varie passioni – politica, arte, letteratura, ecc. – che hanno caratterizzato la vita di Piero Malvolti, morto nel novembre 1998, ce n’era una che le metteva tutte in sottordine: l’amore per il territorio. Piero amava Fucecchio e il suo circondario incuneato fra le province di Firenze, Lucca e Pisa, come si può amare solo una creatura viva e di famiglia. Per questo amore, lui, uomo pacifico e di straordinaria dolcezza, era pronto a battersi senza risparmio, contro chiunque lo minacciasse, con un impeto talvolta iroso che stupiva.

Di Fucecchio era, da generazioni, la sua gente; a Fucecchio era nato, nel 1920, e aveva sempre vissuto. I frequenti viaggi cui era costretto dal lavoro di fortunato imprenditore (viaggi che lo portavano molto lontano, dall’Est d’Europa all’America) erano per lui solo intermezzi dolorosi e spiritualmente sterili. Infatti li abbreviava quanto più gli era possibile. E la ragione principale che gli ha fatto por fine, anzitempo, a una brillante carriera, è stato, ne son certo, il desiderio di non staccarsi dal proprio paese, per viverlo a fondo e, se necessario, muoversi in sua difesa.

Diventare un leader dell’ambientalismo, per un uomo d’ animo così sensibile e così fedele alla memoria, era, più che una scelta volontaria, una necessità e un obbligo. La zona interessata (quella del medio Valdarno) non poteva trovare un rappresentante più appassionato e attivo.

Non era un impegno da poco. Fucecchio è a due passi da Santa Croce, nel cuore del comprensorio delle pelli e del cuoio. Sappiamo quanto tale industria sia redditizia. È ad essa che la zona deve uno dei primi posti nella graduatoria nazionale per il reddito pro-capite. Meno noti sono forse i danni che ha provocato: inquinamento dell’aria e delle acque, manomissione del paesaggio e dell’abitato, malattie, promiscuità, disordine.

Finché la concia delle pelli era un artigianato, non aveva rotto gli equilibri naturali e sociali del luogo. Fucecchio, fino alla guerra, era rimasto un antico e civilissimo borgo nel mezzo di un’oasi di vita naturale – il padule e le Cerbaie – che pareva fatto per durare in eterno. La nuova rivoluzione industriale era però alle porte. E una volta esplosa, con impeto febbrile, non tardava a sconvolgere ogni assetto ambientale e sociale.

Per Malvolti, giovane avvocato trasformatosi in costruttore di macchinari d’avanguardia, cominciava una lunga guerra che lo vedeva di anno in anno sempre più impegnato nel tentativo di strappare al saccheggio qualche lembo della sua terra. Non c’era da farsi illusioni. La posta in gioco era alta. E quando si ha a che fare col guadagno, si formano alleanze così compatte da rendere irrisoriamente inefficaci le ragioni disinteressate del singolo.

Malvolti veniva da una lunga militanza politica. Cattolico e antifascista aveva fatto parte del C.L.N. clandestino in rappresentanza della democrazia cristiana. E successivamente fino alle elezioni del 18 aprile ’48, s’era opposto con coraggio allo strapotere locale del Partito comunista. Ora la rivoluzione industriale in corso aveva rotto i vecchi schieramenti.

I nemici di classe di una volta (i borghesi e i popolani) s’erano alleati fra loro con la stessa finalità, lo sviluppo; ligi a una sola legge, il profitto. Figuriamoci che cosa potesse, contro un simile avversario, un uomo forte solo di un ideale (la conservazione dell’ambiente e della memoria storica) considerato, dai più, un ostacolo.

È in questa ottica che dobbiamo vedere l’azione svolta dall’amico Piero nel campo letterario, editoriale ed artistico. A ogni atto distruttivo compiuto dai «nuovi barbari» egli rispondeva con un libro: «Fine di una terra», «Fucecchio un paese», o con un’iniziativa culturale, come ad esempio la ristrutturazione del palazzo medievale dei Della Volta dove oggi ha sede la fondazione Montanelli. «Erba d’Arno», rivista trimestrale di varia umanità, fondata nel 1980 – seguita poco dopo dalle «Edizioni dell’Erba» – aveva lo stesso scopo. Oltre alle sezioni che una rivista del genere dedica di solito alla letteratura e all’arte, «L’Erba» ne riservava una, in ogni numero, alle ricerche sul territorio, geologiche, archeologiche, storiche, perché i concittadini avessero la coscienza di vivere non in un precario presente ma in una realtà elaborata nei secoli, cui si deve, se non amore, rispetto.

«Erba d’Arno» pubblicava (e spero continuerà a pubblicare) autori noti, come Luzi, Betocchi, Parronchi, Barsotti, Giampieri, Leoni, tutti cari amici di Piero, e giovani sconosciuti o dimenticati. Fra questi ultimi occupa un posto particolare Giangiacomo Micheletti, suo conterraneo e coetaneo, scomparso a soli ventitré anni, subito dopo la fine della guerra. Come hanno riconosciuto critici illustri (fra gli altri Carlo Bo) Micheletti era scrittore vero, dotatissimo, di un naturalismo visionario che si stacca dal panorama un poco uniforme della narrativa neorealista dell’immediato dopoguerra. «Il vento delle cavalle»: così s’intitola il bel romanzo da lui lasciato insieme ad altri scritti; sarebbe rimasto inedito se Malvolti non l’avesse scoperto e fatto pubblicare da Vallecchi.

Anche Malvolti era scrittore. Ma per un tratto di signorile distacco, che era soltanto suo, preferiva occuparsi dell’opera degli amici piuttosto che dedicarsi alla propria. Con gli amici scrittori, penso soprattutto a Luzi e Betocchi, aveva rapporti quasi fraterni. Li ammirava e ne seguiva il lavoro con devota assiduità. Di se stesso autore non parlava, o solo di sfuggita, con ironia, quasi volesse scusarsi di stare intervenendo in cose che non lo riguardavano.

Ricordo la sua aria afflitta, un pomeriggio estivo di due anni fa, quando nel salotto della sua casa di Fiumetto (la Versilia era la sua seconda patria) mi dette da leggere i suoi ultimi racconti chiedendomi di dirgli se li ritenevo degni di essere raccolti in volume. Li lessi e rilessi con piacere, sorpreso di trovarci, oltre alle doti di spontaneità e di freschezza già riscontrate nei libri precedenti, una nota di tragico realismo che non mi attendevo. Glielo dissi e lui mi ascoltò, sorridente e incredulo. Aggiunsi che volentieri gli avrei scritto una prefazione. Mi guardò perplesso e un poco preoccupato.

Il libro uscì alla fine dell’anno benissimo accolto, specie dagli amici scrittori, concordi nel deplorare che Piero non si fosse finora impegnato più a fondo nel lavoro letterario. «I racconti della piazza» infatti va molto oltre di quanto annuncia nel titolo che rimanda a un certo bozzettismo toscano. Scrivendolo, Malvolti, non intendeva uscire dalla cronaca locale, né aggiungere qualcosa d’inventato alla nudità dei fatti. Ma grazie a un linguaggio fortemente evocativo è riuscito spesso a trasformare semplici episodi d’ambiente paesano in vicende intrise di pathos drammatico. Agli elogi Malvolti rispondeva con un silenzio venato d’ironia. Non gl’importava di appartenere al piccolo olimpo degli scrittori. Gli bastava d’avere reso omaggio al suo paese, l’amato frammento di mondo cui si sentiva ancorato per l’eternità.

Questo atteggiamento si spiega con la sua fede, radicata in lui sin dall’infanzia. Tutti i suoi interessi del resto avevano in comune quell’origine. Anche la sua passione per l’ambiente veniva di là. «Non si può», mi diceva, «manomettere e straziare a nostro arbitrio il dono che Dio ci ha fatto».