Cultura & Società

Cancogni, a 95 anni torna a scrivere per Toscana Oggi

di Manlio Cancogni

L’ultimo articolo l’avevo scritto per «L’Osservatore Romano» l’11 settembre del 2003, due anni dopo quella tragedia epocale: «New York, città decapitata?». Avevo, allora, 87 anni e mi sembrava giusto, alla mia età, concedermi  un periodo sabbatico. Non è stata la prima volta in cui ho interrotto l’attività giornalistica. Nel 1948 mentre collaboravo con «Il mattino dell’Italia centrale» di Firenze decisi di scrivere un romanzo e di tornare all’insegnamento di storia e filosofia al liceo di Sarzana. La mattina facevo scuola poi tornavo a Fiumetto e il pomeriggio lo dedicavo alla stesura.  Era stato, il ’48, un anno interessante perché poco prima della mia decisione il giornale mi aveva inviato a seguire il Giro d’Italia, vinto da Fiorenzo Magni, che non mi garbava molto per la sua compromissione con la Repubblica di Salò. Quella scelta l’avevo fatta assieme a Carlo Cassola che tornò ad insegnare a Cecina e riprese la sua attività letteraria. Terminai il romanzo Poveri trentenni nel febbraio del 1949. Mi sembrava piuttosto riuscito (anche a giudizio di Cassola), ma fu rifiutato da un paio di case editrici. Nel frattempo mi giungevano nuove proposte da parte di Zincone che dirigeva «L’elefante» e da Arrigo Benedetti che mi offrì l’incarico di inviato per «L’europeo». Accettai con piacere anche perché in quel periodo ero tormentato dall’idea della morte (un’idea che oggi accetto con serenità). Il giornalismo, con la sua «verve» mi sembrò l’antidoto più efficace. Dal settembre tornai nell’agone.

Un’altra pausa me la presi nel 1965-66. Dopo dieci anni a «L’espresso», di cui sei come corrispondente da Parigi (1959-1965), anche la «ville lumière» mi era venuta in uggia. Non sopportavo più tutta quella folla di intellettuali e pseudo-intellettuali europei e americani, tra cui mi includevo, che mi facevano sentire un parassita. Pensavo alla mia posizione privilegiata rispetto ai tanti «paria» della «banlieu» locale e del mondo intero.

Nel 1967 mi venne affidata la direzione de «La fiera letteraria». Avevo fior di collaboratori: Luzi e Pampaloni per la Letteratura, Brandi per l’arte, Zampa per il teatro e la germanistica, Lele d’Amico per la Musica e tanti altri. L’editore  Angelo Rizzoli mi chiamò verso la fine del 1968 dicendomi che con i fondi del giornale avrebbe preferito aprire una clinica. Non seppi dargli torto. Devo aggiungere, per la verità, che mi ero già stufato di quell’incarico.

L’anno seguente mi trasferii negli Stati Uniti per  insegnare Letteratura italiana allo «Smith College» del Massachusetts e Spadolini, che dirigeva «Ilcorriere della sera», mi invitò a collaborare. Una collaborazione che durò finoal1976. Mi piace ricordare, da appassionato del calcio, che nel 1974 fui inviato ai Campionati del mondo in Germania. Poi ci fu un’altra interruzione di due anni. Nel 1978 tornai negli States e per un periodo di alcuni mesi feci il corrispondente de «Il globo», quotidiano economico diretto da Michele Tito. Nel supplemento settimanale scrissi una storia della famiglia Rockfeller  e delle Isole Malvine. Poi un’altra interruzione fino al 1982 quando rientrai in Italia e aderii all’invito dell’amico Montanelli per «Il giornale» dove scrissi fino a quando avvenne l’aspra rottura con Berlusconi. Seguii Indro a «La voce». Era il 1994. Quando nel 1995 il giornale chiuse, anch’io pensai che era giunta l’ora di dedicarmi esclusivamente al romanzo e alla saggistica.

Ma è proprio vero che «l’uomo propone e Dio dispone». Nell’ottobre del 1998, dopo aver partecipato all’Udienza di Giovanni Paolo II, fui avvicinato da Gian Filippo Belardo, allora redattore responsabile dellaTerza Pagina (oggi scomparsa)de «L’Osservatore Romano». Ricordo quell’incontro nella hall di un piccolo albergo  a cento metri dalla Galleria Borghese. Ci trovammo subito in sintonia, che dopo poco si trasformò in amicizia fraterna. Il 4 dicembre apparve il mio primo articolo sulla testata vaticana. Era dedicato al ricordo di un amico toscano, Piero Malvolti, strenuo difensore dell’ambiente e della natura. Mi piaceva molto il fatto di essere passato dal laicismo di molti giornali su cui avevo scritto per tanti anni a un quotidiano che esprimeva pienamente quella fede che avevo ritrovato. È stato per me un periodo molto positivo. Mi sono impegnato molto. Desideravo scrivere buoni articoli mettendoci molta cura anche dal lato stilistico. Quello stesso impegno che ora dedico ai lettori di «Toscana Oggi».

La scheda: Un versiliese nato a BolognaManlio Cancogni, toscano d’origine, è nato nel 1916 a Bologna solo perché i genitori, versiliesi, si erano trasferiti per un breve periodo, durante la guerra, nel capoluogo emiliano. Ma la Versilia è sempre rimasta la sua terra e ancora oggi vive a Fiumetto assieme alla moglie Maria Vittoria Vittori, fiorentina, che ha sposato nel 1943. Autore di un gran numero di romanzi di successo, saggista e drammaturgo, ha scritto anche, come ricorda in questo suo primo articolo per «Toscana Oggi», su alcuni dei principali quotidiani e periodici italiani. Gran parte degli scritti di Cancogni sono stati raccolti nel libro Manlio Cancogni: bibliografia delle opere e della critica, 1939-2010 (a cura di Federica Depaolis e Walter Scancarello), presentato il 30 aprile a Pietrasanta. Il lavoro annovera quasi 2500 riferimenti tra libri, racconti, articoli che l’autore ha prodotto durante la vita. Una vera e propria storia d’Italia vista dagli occhi di uno dei maggiori protagonisti. È quindi per noi un grande onore poter annovare su queste pagine la firma di Manlio Cancogni.