Cultura & Società

La tv da salvare e da buttare

di Lorella Pellis

Ci sono la stella e il cestino dei rifiuti, il pollice su e il pollice verso, i palmi aperti con l’indicazione dell’età giusta per vedere questo o quel programma. E poi gli smiles o «faccine» che dir si voglia, e anche la conchiglia che indica le trasmissioni particolarmente adatte alle famiglie, segnalate dal Movimento italiano genitori (il Moige), e il logo del bambino in tv per segnalare i programmi più consoni all’età infantile. Tanti simboli per sintetizzare i giudizi, più approfonditi e motivati, riportati nelle schede di Un anno di zapping, la guida critica ai programmi televisivi della stagione 2008-2009 curata per le edizioni Magi da Armando Fumagalli e Claudia Toffoletto. A partire da questo interessante lavoro, utilissimo anche per orientare le scelte dei telespettatori nella stagione a venire, abbiamo fatto una lunga chiacchierata sullo stato di salute della tv attuale proprio con Armando Fumagalli, ordinario di Semiotica e direttore del Master universitario in scrittura e produzione per la fiction e il cinema all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nostro collaboratore e, dal 2009, anche presidente provinciale dell’Aiart a Milano.

Armando, su «Un anno di zapping» avete valutato la qualità dei programmi televisivi. Cosa puoi dirci in merito alle trasmissioni «top» e «flop» – chiamiamole così – della stagione appena conclusa?

«La cosa interessante sui “top” è che abbiamo trovato programmi buoni in ciascun genere televisivo. Il che conferma proprio ciò che volevamo dire, anche con il libro, e cioè che si può fare buona televisione in tutti i generi, non solo in quelli dove appare più semplice. È logico che un quiz non ti darà la stessa profondità, ad esempio, di un programma di storia, ma può essere fatto in modo che sia un intrattenimento sano e di buoni contenuti. Abbiamo parlato bene di Chi vuol essere milionario e dell’Eredità, mentre abbiamo criticato il programma di Enrico Papi La ruota della fortuna. E c’è una buona tv addirittura nel genere dei reality, perché Ballando con le stelle tecnicamente è un reality e secondo noi è un programma carino, interessante, abbastanza elegante, non puntato sul litigio e via dicendo. Un altro reality di cui abbiamo parlato bene è Sos tata, un modo divertente per dire delle cose interessanti ai genitori sull’educazione dei figli. Insomma, non c’è solo la fiction su Paolo VI, ma si possono trovare anche buoni programmi di tipo diverso. Obiettivo del libro, inoltre, era anche segnalare quelle trasmissioni che magari si trovano su reti minori o ad orari strani e che adesso si possono registrate o trovare per esempio su alcuni siti Rai. I “flop”, invece, sono in genere programmi vuoti, volgari, programmi di riciclo. Penso che uno spettatore debba avere interesse a cercare il meglio, anche se a volte programmi di grandissimo successo tipo I Cesaroni possono presentare alcune riserve dal punto di vista del contenuto».

Più in generale, secondo te a livello televisivo si sta assistendo a un miglioramento o invece si sta purtroppo andando di male in peggio?

«Vedo una situazione ambivalente. Ci sono cose positive, come alcune fiction italiane che riescono a riproporre una parte importante della nostra memoria storica. Magari tecnicamente il ritmo e la regia non saranno perfetti, ma per me è più importante raccontare un personaggio come Gino Bartali piuttosto che tante altre storie bene narrate ma che danno poco. Dall’altra parte ci sono programmi che stanno andando sulla linea del trash e che per reggere devono inventarsi sempre il peggio, come è successo con Il grande fratello. Ho l’impressione però che Canale 5 questa cosa la stia pagando: alla fine devi crearti un profilo di rete che abbia un’identità e allora, se procedi a colpi di Grande fratello, quando poi fai al pubblico una proposta un po’ più seria rischi che non ti creda e non ti segua più e magari si affezioni ad altre reti. Mentre invece la Rai, soprattutto RaiUno è tutto sommato più coerente con il profilo di rete».

Quali programmi, allora, andrebbero maggiormente sviluppati, e con quali criteri?

«Più che su certe categorie di programmi, penso che occorra fare un investimento molto forte sull’“autorialità”, cioè sullo sviluppo delle idee, perché magari le star vengono pagate tanto, ma i programmi più discutibili sono buttati lì in quattro e quattr’otto, cotti e mangiati, senza un lavoro dietro. Nei programmi che invece funzionano bene, quasi sempre oltre al talento della star c’è un grande lavoro di sviluppo dell’idea. Per uscire dal circolo vizioso per cui per far funzionare un programma devo invitare Alba Parietti e il tizio che è uscito dal Grande fratello, credo che la soluzione sia investire sull’autorialità. Questo vale per la fiction ma anche per l’intrattenimento: se da molti anni non arriva un programma nuovo importante, vuol dire che c’è davvero una riduzione di sviluppo delle idee».

In un tuo recente saggio sulla rivista dell’Aiart (Associazione spettatori) «La Parabola» hai affrontato il tema delle fiction a contenuto religioso. Quali sono i motivi che stanno alla base del loro successo, quali i loro limiti e quali, a tuo giudizio, le più e le meno riuscite?

«Le storie religiose sono interessanti, ma devono anche essere raccontate bene. Alla gente continua a interessare la dimensione religiosa della vita e i personaggi, i santi che vengono raccontati con profondità sono molto coinvolgenti, persone molto amabili, ma ovviamente ci vuole un grande lavoro di scrittura e di collaborazione. A fine luglio si inizierà a girare una nuova fiction della Lux Vide su Pio XII. La storia è ambientata nella Roma del 43-44, non sarà tutta la vita di Pio XII ma un anno di occupazione di Roma da parte dei tedeschi. Quanto ai limiti, sono da individuare nel ricorso allo stereotipo anziché nello sviluppo di tutta una scala di capacità di fare, di profondità e di sottigliezza. Per cui, delle fiction andate in onda per la televisione metterei per esempio su un gradino più basso il San Francesco fatto per Canale 5 con Raoul Bova, qualitativamente una delle peggiori, mentre su un gradino più alto metterei Chiara e Francesco fatta dalla Lux Vide per RaiUno con Ettore Bassi».

Accanto alle fiction di argomento religioso, la tv ne ha proposte altre con i preti per protagonisti. Di «Don Matteo» abbiamo parlato più volte, ma c’è anche la sit-com di «Don Luca» con Luca Laurenti che tu hai stroncato senza mezzi termini. Segno evidente che non sempre l’abito fa il monaco, anzi il prete…

«Don Luca non è fatta con cattive intenzioni ma è un po’ superficiale: magari alla fine non ci saranno grosse scemenze, ma certe cose ad alcuni possono dare fastidio. Io invece evidenzierei la vitalità di Don Matteo, di cui in autunno arriverà la serie numero 7».

Il graduale passaggio da una tv generalista a una tv «on demand» cioè «su richiesta» come sta cambiando e come cambierà il rapporto con questo mezzo? Quali i rischi e quali i benefici?

«Cambierà nel senso che le reti generaliste, le prime sei reti, sono già calate e caleranno ancora un po’ relativamente agli ascolti totali, e ci sarà un pubblico – oggi più o meno un 25 per cento degli ascolti generali – che andrà a cercarsi la televisione su misura, sia con il digitale terrestre gratuito sia con quello a pagamento, anche a basso costo, quindi uno potrà trovarsi sempre più le cose che gli piacciono e ci sarà una maggior frantumazione degli ascolti. Il rischio è quello di un impoverimento della tv generalista, per cui un domani le cose migliori non saranno più per tutti ma ce le dovremo pagare. Ovviamente gli ascolti caleranno molto per le reti principali, quindi Rai e Mediaset non potranno permettersi cose belle ma care, fiction come Guerra e pace o Montalbano e via dicendo. Il vantaggio sta nel maggior pluralismo, nella speranza che si affermino dei prodotti buoni. Perché il vero problema è questo: non è che i prodotti buoni non hanno spazio dove andare, è che oggi non li fa quasi più nessuno, perché non ci sono molte persone capaci di realizzare programmi con buoni contenuti ma anche appassionanti. Quindi il vero problema è formare autori e produttori».

Armando, dal 25 luglio al 1° agosto Fiuggi si appresta a ospitare un avvenimento decisamente originale, il primo festival dedicato alle famiglie italiane, il «Fiuggi family festival» di cui sei responsabile del comitato scientifico. Qual è l’obiettivo di questa manifestazione?

«L’idea di fondo è di avvicinare il mondo della produzione cinematografica al mondo dell’associazionismo, in particolare all’associazionismo familiare, perché da una parte ci sia una rappresentazione più corretta della famiglia nel cinema e dall’altra perché questo mondo dell’associazionismo impari meglio a comunicare e ad essere presente. Anche se per le famiglie di fatto ha più importanza la televisione, tuttavia il cinema (che viene fruito in tv in mille modi) ha una forza di impatto enorme. Al “Fiuggi family festival” si possono vedere gratuitamente tre, quattro film al giorno, dall’Era glaciale 3 ai più bei cartoni animati della storia. Proprio una bella occasione per tutta le famiglia».

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