Cultura & Società

Malaparte, 50 anni dopo fa ancora discutere la conversione

di Gianni Rossi

Già nel 1973 un allora trentenne Massimo Fini – poi divenuto uno dei giornalisti più noti e controversi d’Italia – sull’Europeo scriveva che di Malaparte, «uno scandalo politico e letterario durato quasi quarant’anni», pare che «nessuno più si ricordi». Lui che aveva pubblicato best seller internazionali quali Kaputt e La Pelle e che «affascinò e sedusse i grandi e i grandissimi del suo tempo, da Stalin a Mussolini, da Gobetti a Togliatti», «per singolare contrappasso, gli tocca l’oblio».

A cinquant’anni dalla morte non è cambiato poi molto. Chi scorra anche un buon manuale di letteratura per le scuole superiori, di Malaparte troverà appena qualche cenno. E pensare che in Francia, quasi una seconda patria per lo scrittore pratese, è considerato pressoché unanimemente uno dei più grandi scrittori del Novecento europeo. Forse aveva ragione Maria Antonietta Macciocchi, l’intellettuale di sinistra morta lo scorso 15 aprile, nel parlare di un vero e proprio «regolamento di conti», «compiuto dalla società colta nei confronti di uno scrittore che rompeva tutti gli schemi del vecchio provincialismo»: repubblicano in gioventù, poi fascista e antifascista, ammiratore della Cina di Mao, comunista negli ultimi mesi di vita e cattolico in punto di morte. Imperdonabile trasformista, tanto da suscitare odi profondi, o – come lui stesso ebbe a dire, da inguaribile narciso – «venti centimetri più alto della media degli scrittori italiani?».

Già, la conversione. Nato luterano – suo padre arrivò nel 1892 a Prato dalla Sassonia per lavorare nell’industria tessile – vissuto agnostico e anticlericale, Malaparte approdò sul finire della vita a quel Cristo del cui fascino sono intrise molte sue opere. Fu l’ultimo scandalo, che molti non gli hanno mai perdonato. Tanto che, ancora oggi, c’è chi quella conversione la vuole negare. Ci aveva già provato Giordano Bruno Guerri nell’Arcitaliano e nel Malaparte illustrato. In questi giorni anche La Nazione, nell’opera a fascicoli regalata ai lettori pratesi, è tornata a mettere in dubbio l’esistenza o, quantomeno, la sincerità di quell’estremo passo di vita. Una cosa è certa: solo Dio legge nel cuore dell’uomo. Ma come ebbe a sottolineare don Giuseppe Billi, direttore del Centro culturale cattolico di Prato nel presentare il volumetto L’ultimo viaggio di Malaparte, che della conversione raccoglie testimonianze e documenti, «è un fatto però che di questa sua conversione ne hanno parlato e scritto, per diretta e personale esperienza, persone di autorevolezza culturale e morale riconosciuta. […] Per i termini e le precise circostanze con le quali le descrivono – osserva don Billi – si possono ritenere sufficientemente credibili. Anzi, con tratti di straordinaria e commovente originalità». Se è vero che al capezzale della famosa clinica romana «Sanatrix» – dove lo scrittore fu protetto per mesi da un agente di polizia inviato in persona dal ministro dell’Interno Tambroni – si scatenò una vera e propria «sarabanda» di scrittori, giornalisti, attori, registi e politici, molti piuttosto «interessati», perché pensare che Malaparte, nel migliore dei sospetti, abbia voluto semplicemente «prendersi gioco» di tutto e tutti? Due amiche dello scrittore, opposte per più versi e certo al di sopra di ogni sospetto, quali Oriana Fallaci e la citata Macciocchi, hanno creduto alla sincerità della conversione: per la prima fu «una libera lucida scelta», per l’altra «né una sua mistificazione diabolica, né un’usurpazione della sua coscienza da parte di un abile gesuita».

D’altra parte, ebbe a scrivere padre Ferdinando Castelli, tra i più acuti indagatori della spiritualità nella letteratura moderna, «l’approdo a Cristo del “maledetto toscano” può recare meraviglia solo a chi percorre la sua opera superficialmente, soffermandosi sugli aspetti scandalistici, estrosi e puramente formali; non a chi si sforzi di leggerlo in profondità e scorgere quella vena di nostalgica purezza, di redenzione e di pietà che serpeggia in molte sue pagine».

La scheda

Kurt Suckert nacque a Prato il 9 giugno 1898, terzogenito del tedesco Erwin, maestro tintore, e della lombarda Evelina Perelli. Studente al Cicognini di Prato, a soli 17 anni fugge di casa per arruolarsi nella grande guerra come volontario della Legione Garibaldina nelle Argonne; dopo la maturità, torna al Fronte. Nel 1919 venne inviato a Parigi come capo ufficio stampa del Consiglio supremo di guerra presso la Conferenza di pace. La sua attività di scrittore iniziò nel 1921 con «Viva Caporetto»; la fama internazionale arrivò nel 1931 con «Techinique du coupe d’Etat». Iscritto al partito fascista, a soli 31 anni è direttore de La Stampa. Accusato di attività antifascista all’estero, è prima incarcerato e poi inviato al confino. Controllato a vista fino alla caduta del regime, inizia le corrispondenze per il Corriere della Sera dall’Etiopia, Grecia, Jugoslavia, Russia e Finlandia. Rientrato in Italia pubblica il romanzo Kaputt. Ufficiale di collegamento al seguito degli americani, poté osservare lo sfacelo materiale e morale di Napoli dopo la liberazione, che descriverà ne «La Pelle», pubblicato nel 1949 e messo all’Indice: discusso, controverso, il romanzo ebbe uno straordinario successo in Italia e all’estero. Si avvicina al Pci. Nel 1951 viene presentato il suo film «Il Cristo proibito». Malaparte fu indubbiamente uno degli intellettuali più famosi della prima metà del Novecento. Repubblicano, fascista, comunista, per molti fu un odiato trasformista, ma rimarrà sempre uno spirito libero pagandone di persona le conseguenze.Nel 1956 pubblica «Maledetti Toscani». Invitato dai rispettivi governi, compie un lungo viaggio in Unione Sovietica e in Cina. Fu l’unico giornalista italiano ad intervistare Mao. L’11 marzo 1957 rientra a Roma gravemente ammalato, per un cancro ai polmoni. Morirà il 19 luglio nella clinica Sanatrix. La sua tomba si trova sul poggio di Spazzavento, sopra Prato, dove volle essere sepolto. Le celebrazioni: Mostre, convegni e una Messa: così lo ricorda la sua città«Io son di Prato, m’accontento d’essere di Prato, e se non fossi di Prato vorrei non esser venuto al mondo». È ripresa da «Maledetti Toscani» la frase scritta sulla lapide della tomba di Malaparte, sullo Spazzavento, il poggio del monte Le Coste che domina Prato. A 50 anni dalla morte, il Comune ha organizzato la manifestazione «Dedicato a Malaparte», con letture, incontri, convegni, che si concluderanno con la cerimonia ufficiale del 19 luglio, proprio al Mausoleo (partenza ore 8 da piazza del Comune). A novembre è in programma un convegno internazionale dal titolo: «Malaparte e la Francia». Intanto al Museo del Tessuto si tiene la mostra «Prato come me. Atmosfere malapartiane».Sabato 21 luglio, alle 18, il vescovo di Prato Gastone Simoni celebrerà in duomo una messa di suffragio.Il vero evento del centenario, però, potrebbe essere costituito dalla cessione del prezioso archivio storico di Malaparte, che gli eredi stanno trattando con il Comune di Prato.

Le testimonianze

«Andiamo lassù». Al microfono di Enrico Ameri la testimonianza di padre RotondiNegli ultimi tempi – annotava un giovane Igor Man in un suo articolo-testimonianza apparso pochi giorni dopo la morte – Malaparte parlava spesso della morte. […] “Sono cristiano – diceva – e la mia religione mi ha insegnato a non aver paura della morte. E poi, i toscani come me sanno benissimo che il morire, per loro, non è che un cambiar podere. Se ne vanno a mezzadria in un altro podere: ecco tutto. Il Fattore è sempre lo stesso”».

A leggere questo intervento, pubblicato sulla rivista La Fiera letteraria, la conversione dello scrittore pratese non appare come un fatto sorprendentemente improvviso. Sono diverse e non contraddittorie le testimonianze più attendibili circa la scelta di abbracciare la fede cattolica durante la fase terminale del cancro ai polmoni, che già da qualche anno lo attanagliava: c’è innanzitutto quella di padre Virgilio Rotondi, noto gesuita, e del suo confratello Cappello, c’è quella del Vescovo di Prato mons. Pietro Fiordelli, e quella della toscana Suor Carmelita, una delle religiose in servizio presso la clinica «Sanatrix» di Roma. Pochi personaggi famosi, sono stati ricercati e blanditi al loro capezzale quanto Malaparte. Tutti cercavano di «accaparrarselo»: alla «Sanatrix» giunsero il presidente della Repubblica Einaudi, il segretario della Dc Amintore Fanfani e quello del Pci Palmiro Togliatti. Come ricorda Giordano Bruno Guerri i quattro mesi finali della sua vita «furono oggetto di una letteratura sterminata. Non passava giorno senza che qualche giornale gli dedicasse un articolo: Tempo (il periodico su cui Malaparte teneva una seguitissima rubrica) fece addirittura una cronaca minuto per minuto della malattia», grazie ad un cronista – Franco Vegliani – che di fatto si trasferì nella clinica. Anche i preti fecero la loro parte. Ma perché pensare, in presenza di testimonianze tutte coincidenti e autorevoli alle quali gli stessi familiari immediatamente dettero credito, che sia stata tutta una montatura o che lo scrittore pratese abbia inventato tutto?

I fatti andarono così. Padre Rotondi fu presentato a Malaparte da un comune amico. Da questo incontro, «attraverso alcuni appassionati dialoghi» e soprattutto «la straordinaria sensibilità di quell’anima nobile» – come ebbe a scrivere il gesuita alcuni anni dopo la morte – maturò l’approdo alla fede. Del travaglio interiore fu testimone anche il giovane vescovo Fiordelli, che ebbe con lo scrittore suo concittadino un lungo colloquio e uno scambio epistolare. Suor Carmelita raccolse le memorie di quei giorni in un accurato diario. Proprio la religiosa annota la data del battesimo, l’8 giugno, conferito da padre Cappello. Rimase un segreto. Fu padre Rotondi, la sera stessa della morte, il 19 luglio, ad annunciare via radio, al microfono di Enrico Ameri, la conversione. Il 7 luglio – lo conferma lo stesso Vegliani – Malaparte mandò a chiamare padre Virginio, cui disse: «Faccia presto, mi confessi e mi dia Gesù». Alla Comunione, sempre secondo il gesuita, assistettero il fratello Ezio e la sorella Maria: i familiari non hanno mai smentito questo particolare.

Giordano Bruno Guerri, che di Malaparte è il principale, ovviamente discusso e discutibile, biografo, discredita la testimonianza di padre Rotondi con il controverso episodio della tessera del Pci: consegnata da Togliatti in persona, sarebbe stata poi, secondo le parole del gesuita, strappata da Malaparte. Nel 1980 Guerri sostenne invece che quella tessera era integra tra le carte dei familiari. Ora, a parte il fatto che, stando agli eredi, non pare esserci traccia di quel documento nell’archivio storico di Malaparte, lo stesso Giordano Bruno Guerri deve convenire nel suo Arcitaliano che, «ammesso che sia avvenuta, non sembra che la conversione al cattolicesimo smentisca l’altra conversione (l’iscrizione al Pci, peraltro precedente di quattro mesi, ndr)». Una conferma viene anche da una delle due ormai anziane nipoti, Laura Ronchi Abbozzo: «Io sono sempre stata – ci dice tra il serio e il faceto – quella che si dice una “catto-comunista” e quindi non vedo come insanabili le due scelte di Malaparte. In cuor mio credo che la conversione al cattolicesimo sia stata sincera. In ogni caso – chiosa – lui che era scappato giovane dal Collegio Cicognini per andare a combattere nelle Argonne durante la prima guerra mondiale, ha scritto poi Kaputt e La Pelle che sono due grandi denunce contro le guerre. Se non altro, per questo, il buon Dio gli userà misericordia».