Dossier

8 marzo, donne, donne, eterni dei!

di Carlo LapucciSono molte le categorie dei tipi femminili. Considerando il numero consistente di proverbi che il patrimonio sapienziale popolare riserva alla donna e confrontandolo con quello relativamente esiguo che è dedicato agli uomini, si vede che l’attenzione verso i due aspetti dell’umano è sproporzionata. Lasciando a sociologi e moralisti la valutazione del fenomeno, vediamo un altro aspetto di questa minuziosa indagine portata avanti per secoli da un’intelligenza collettiva.

Accanto alle regole proverbiali, la lingua mette a disposizione aggettivi o espressioni volti a creare tipologie umane nelle quali è possibile far rientrare i vari modi di essere dell’uomo e della donna, al fine di regolarsi sbrigativamente nei rapporti e nelle varie situazioni della vita: è una brava persona, è uno scavezzacollo, è un povero diavolo, è un velleitario, un buono a nulla. Sono espressioni generiche, di scarso valore scientifico: indicazioni pratiche, utili per regolarsi al momento giusto e poi dimenticarsene.

Ve ne sono altre ancora più precise: etichette, ognuna delle quali rappresenta un mondo intero, un capitolo compiuto del comportamento umano, categorie delle quali hanno fatto tesoro la letteratura e il teatro per costruire personaggi, con le relative situazioni, con i comportamenti, e gli esiti: l’avaro, il burbero benefico, il gretto, l’arrampicatore sociale, l’importuno, il dongiovanni, il fanfarone, il visionario, il borghese gentiluomo, il vitellone. Per ogni categoria si possono trovare una o più figure celebri che la rappresentano: Arpagone, Don Chisciotte, Don Abbondio…

Per la donna è avvenuto altrettanto, anzi la tipologia è più fitta e dettagliata, arrivando a definire in una parola anche le sfumature. La lingua delle varie zone della Toscana è ricca anche di grandi ripartizioni, delle quali è possibile offrire qualche esempio.

La CenerentolaCominciamo da una parola nazionale: la cenerentola. È la brava ragazza trascurata dalla famiglia, che la obera di ogni fatica e lavoro, riservando ad altre persone, meno capaci, più pretenziose e proterve, onori, attenzioni, vantaggi, riguardi. È la donna che vive accanto alla cenere, ai lavori umili della casa, ma che nasconde nella sua anima qualità e valori che altre non hanno, come la protagonista dell’omonima fiaba di Perrault, della quale Rossini musicò una riduzione drammatica. È genericamente la perla nascosta, disprezzata da tutti, ma a tutti superiore, destinata a rifulgere a tempo e a luogo: condizione molto comune nelle autovalutazioni femminili. La CianaLa ciana è tipicamente toscana: è la boccalona, la chiacchierona, quella che mentre viene a sapere una cosa, già la riferisce: «non tiene nemmeno le pere cestelle». Nel riferire però aumenta, rincara le dosi, usando parole volgari, triviali. Sta sulla porta e rifà il letto a tutti quelli che vede passare, soprattutto a tutte. Risponde male, urla, non ha la minima educazione. Da un sospetto fa una verità, riferisce a caso, pur di parlare, dimostrando di sapere tutto, d’indovinare. Un tempo a Firenze era detta la ciana di San Frediano. È l’equivalente femminile del becero e unisce anche un vestire sciatto, sciamannato, poca pulizia, testa scapigliata. Il termine è collegato comunemente con ciancia, cianciare, ma viene da «Luciana», nome del quale è un’abbreviazione. Deriva dal melodramma Madama Ciana di A. Valle (1738) e fu divulgato da G. B. Zannoni negli scherzi comici intitolati Le ciane di Firenze. La ComareLa tipologia si usa anche in Toscana, ma è assai diffusa. È una ciana diciamo da salotto: ama spettegolare, malignare, mormorare, insinuare, tagliare i panni addosso alla gente, ma non ha, o le ha in misura minore, la volgarità, la sguaiataggine, la grossolanità, la malignità della ciana. Propriamente sarebbe la madrina, la donna, in genere amica di famiglia, che tiene a battesimo, o a cresima, il bambino, la cui madre diviene a sua volta sua comare, ma comunemente si usa il temine per indicare la donnicciola chiacchierona e fatua, che parla per parlare (discorsi da comari), e attacca bottoni ai mercati, per le strade, per le scale, sulle porte, vogliosa di sapere e far sapere i fatti altrui. Il segreto della comare è appunto quello che tutti sanno. La «Socera»Si usa spesso la parola suocera per indicare un tipo di donna entrante, ficcanaso, che presume di sapere tutto, capire tutto, comandare a bacchetta; che s’intrufola nella vita altrui pretendendo d’ordinare e decidere a suo modo. Su tutto trova da ridire: gli altri non fanno bene nulla e pretende d’aver sempre ragione. La BellonaE’ molto usata in Toscana questa parola per indicare una donna di vistosa bellezza, dai tratti un po’ carichi che essa ama accentuare, con gli abiti, con i gesti e i modi, con il trucco. È una che si esibisce, anche con un po’ di sfacciataggine. Non è una vera bellezza, è piuttosto un’abbondanza. Nelle fiere un tempo si usava recitare a soggetto scenette sull’argomento: Il cieco e la bellona, se non volgari non proprio edificanti. A volte può avere anche un accenno a comportamenti disonesti, ma si può essere bellona anche solo per il gusto di mostrare grazie esplosive, al più per esibizionismo non troppo che malizioso. Seguendo la china si arriva a tipologie per le quali le etichette sovrabbondano. La MaliardaSi presenta anche nelle vesti di sirena e civetta e ha come vezzo quello di attrarre gli uomini e per questo usa vesti appropriate, atteggiamenti allusivi, misteriosi, trucco carico, gioielli vistosi, pose sentimentali. Nell’edizione di lusso è la donna fatale, seducente, che esercita un fascino irresistibile, scatenando violente passioni; mentre nel quotidiano è quella che si diverte a stuzzicare e ama avere un seguito di corteggiatori. Propriamente sarebbe colei che esercita una malia, vicina alla strega: altra etichetta negativa per indicare la maliarda perversa, ovvero la donna malvagia, o bruttissima. La signorina TummistufiEsiste ancora, ma va sparendo dall’uso, questa espressione per indicare una ragazza che si dà delle arie, ostenta gusti sofisticati, non le va bene nulla, fa credere d’essere più di quello che è al fine di attirare su di sé l’attenzione, come se fosse di sensibilità raffinata, di gran gusto e, soprattutto, di desideri, pretese, aspirazioni inesaudibili. Ha il naso ritto, la puzza al naso, è sdegnosa e di grandi pretese. L’Oca giulivaOca è connotazione della donna sciocca, che parla a vanvera, senza riflettere, senza capacità intellettuali, facendosi largo con lo schiamazzare continuo. L’oca giuliva è colei che di questo addirittura si compiace, ignorando completamente il ridicolo del suo comportamento, dicendo sciocchezze una dietro l’altra con candore, ingenuità, o addirittura convinta di dire cose senate. La Madonnina infilzataDetta anche santerellina, ha molti aspetti in comune con l’acqua cheta, la persona che si mostra tranquilla per raggiungere i propri scopi: L’acqua cheta rovina i ponti. Si diffuse anche con la commedia L’acqua cheta di Augusto Novelli (1908) e si può dire anche di un uomo. La madonnina è la donna giovane che nasconde con l’ostentazione di pudore, scrupoli, onestà, ingenuità, rimorsi, un animo, un comportamento e intenzioni di ben altra natura, o comunque la ferma decisione di raggiungere i propri scopi. Si riferisce alle immagini dolciastre delle madonnine dei sette dolori, con il cuore trafitto da sette spade, il volto sofferente e gli occhi smarriti. È parente stretta di quello che comunemente si dice un tartufo, ma con la dolcezza femminile e un accattivante (quanto finto) disarmo. La SacrificataLa sacrificata è categoria tipicamente toscana e tocca un aspetto particolare della donna: il vittimismo, una tendenza al masochismo, l’auto commiserazione, ma spesso con il disegno, segreto o inconscio, di usare tutto questo per rompere le opposizioni, prevalere, dominare, volgere le cose secondo i propri scopi. È la vittima di tutti: del marito in primis, della suocera, della famiglia, dei figli e quanti vengano a contatto con lei, in qualunque situazione. È vittima innocente, oppure oberata di lavoro, stanca, sfiorita dalle pene, sull’orlo dell’esaurimento, ha dato tutto e non ha avuto un giorno di felicità, né l’avrà mai, perché i suoi carnefici si rigenerano e si dànno il cambio. Trova comunque il tempo per parlare ore e ore, spettegolare raccontando a tutti i guai della sua vita tribolata, ma esemplare, dipingendo a tinte fosche i suoi persecutori. Nel 1933 fu scritta e rappresentata una commedia in dialetto livornese, divenuta celebre: Pia de’ Tolomei, ovvero La sagrifiata, di Beppe Orlandi e Gigi Benigni. La VestaleSi dice vestale la donna che si dedica anima e corpo a un’idea, rinunciando alla propria vita, alle proprie ambizioni, divenendo custode rigorosa di un principio, di un’istituzione o altro. In questo senso nulla concede al resto e risulta di moralità rigidissima. Ci può essere anche un uomo nella vita della vestale, ma questo s’identifica, in un’idea, un’ideale. Deriva dal nome delle vergini sacerdotesse addette al culto di Vesta nell’antica Roma. La versione moderna è più dinamica, più aggressiva, combattiva ed è la pasionaria, che però porta con sè anche l’idea di azione rivoluzionaria, come la figura dalla quale la parola deriva: Dolores Ibarruri. La SantaLa santa è quella che fa tutto bene, ha tutte le qualità, si sacrifica in silenzio, mette pace, perdona, è umile, generosa e gentile, spesso vittima di un marito indegno di tanta virtù. Ma il termine è usato più che altro in senso ironico, e in contrapposizione con chi si vuole additare al disprezzo: il persecutore della santa. Perciò anche questa parola non ha un totale valore positivo. Purtroppo i difetti li vedono tutti e pochi riconoscono i meriti. La pisseraSe a Firenze si dice la parola pissera si rischia di essere capiti quasi da tutti: i vecchi fiorentini la usano comunemente, i giovani non la ignorano, gl’immigrati con un periodo anche breve di militanza l’hanno imparata. Quelli che non la conoscono difficilmente ne chiederanno il significato, specialmente se ci si trova tra personcine a modo: quasi sempre sospettano il peggio, vale a dire che sia uno dei tanti nomi di quell’organetto con il quale si esercita il mestiere più vecchio del mondo. Quindi fanno finta di sapere, d’aver capito con un sorrisetto di complice intelligenza». Così scrive Carlo Lapucci nella postfazione al volumetto «La Pissera» scritto da Rosaria Lo Russo, Maria Pia Moschini e Liliana Ugolini (Edizioni Ripostes, pagine 160, euro 10). Nel libro, come recita il titolo, si cerca di definire al meglio la tipologia della pissera. La parola, utilizzata anche al maschile (pissero, pisseri), è in realtà usata quasi sempre al femminile. Questa la definizione «di laboratorio» data da Lapucci: «Dicesi pissera con valutazione negativa, la donna mediocre di ogni età, sposata o nubile, di solito non molto dotata fisicamente, la quale, aspirando ad essere considerata brava, s’impone comportamenti, modi, abbigliamento, scelte particolari, e si presenta come modello di virtù femminili, che possiede però solo in parte limitata. Allo stesso modo si conferma ai difetti apprezzati dalla società, della quale assume i gusti, esaltandoli nella mediocrità e combinandoli sapientemente».

Il fatto straordinario è che la parola pissera non si trova in nessun vocabolario. «È un fenomeno incredibile – scrive il noto studioso di tradizioni popolari – che un termine di così largo impiego, almeno in una città che ha dato la lingua all’Italia, non sia stata registrata in un dizionario se non altro vernacolare. La prima cosa che viene in mente è quella di trovarsi davanti a un vero, granitico, potente tabù sessuale. Potrebbe essere vero per quanto riguarda coloro che si sono occupati di lingua senza essere fiorentini, caduti appunto nel tranello di prendere la parola per un eufemismo del nome della donna, indicata con la parte essenziale per il tutto. La cosa non regge per i fiorentini, i toscani in genere. Il fenomeno – conclude Lapucci – è dunque più complesso: del resto i nomi degli organi sessuali nei vocabolari più seri si trovano registrati senza falsi pudori, quali termini linguistici come gli altri. Non pare questa la strada».

8 marzo, Lettera alla mimosa