Dossier

Il treno della memoria

dal nostro inviato Andrea Fagioli

Da «uno dei troppi Calvari dell’Europa» è salita a Dio la preghiera «con la voce di tutti i nostri morti», scritta da padre David Maria Turoldo e letta dalla giovane Elena Cioci, dell’Istituto d’istruzione superiore «Giovanni da Castiglione» di Castel Fiorentino in provincia di Arezzo: «Sono voci di migliaia di morti, di milioni di morti di ogni popolo, lingua e nazione… Che nessuno di queste migliaia di condannati sia morto invano; che almeno le nuove generazioni siano più fortunate e benedette, e non commettano i nostri errori… Che almeno dalle ceneri dei morti, fuse ora in unità più che il cemento delle nostre costruzioni orgogliose, sorga quell’Europa che loro hanno sognato… E così non avvenga mai, mai più ciò che è avvenuto, ciò che purtroppo è potuto accadere. Per cui, Signore, invochiamo il tuo perdono e la tua pietà».

E mentre nell’angusto Cortile della morte, all’interno del campo di Auschwitz, le chiarine del Gonfalone di Firenze intonano il «Silenzio», dopo una preghiera Rom e un canto ebraico, il pensiero va, tra i tanti morti fra queste mura, ad un altro religioso, al francescano Massimiliano Kolbe, che proprio nella palazzina accanto, la numero 11, trovò la morte dopo una segregazione di 14 giorni nella cella numero 18. Ma le due settimane senza cibo non bastarono «ad aver ragione» del frate: ci volle un’iniezione di veleno al cuore. Lo ricordano una lapide e un cero pasquale all’interno della cella poco distante dai cosiddetti «bunker 4», altre celle di punizione dove i detenuti erano costretti in quattro, appunto, a stare in piedi in uno spazio di un metro quadro senza finestre dopo essere entrati da un pertugio di appena mezzo metro. Il senso di claustrofobia ti attanaglia al solo pensiero. Su alcune pareti si possono ancora vedere dei graffiti fatti con le unghie dai prigionieri: in uno è disegnato un Cristo in Croce.

Questo è Auschwitz, che insieme a Birkenau (il cosiddetto Auschwitz 2), rappresenta la più spaventosa macchina di morte che l’umanità abbia conosciuto, il più grande simbolo del male assoluto. Lo documenta con tragica evidenza il numero delle vittime: più di un milione, forse un milione e 200 mila.

Zaino rosso sulle spalle e distintivo del «Treno della Memoria» al petto, oltre cinquecento studenti toscani, accompagnati da un centinaio di loro professori, hanno varcato i tristemente noti ingressi di Auschwitz e di Birkenau.

La visita ai due lager ha caratterizzato il viaggio nella Slesia polacca dei partecipanti al Treno della Memoria 2007 organizzato dalla Regione Toscana in collaborazione con le Amministrazioni provinciali, le Aziende per il diritto allo studio universitario e con il contributo della Fondazione Monte dei Paschi di Siena. Oltre 22 ore di treno, all’andata e al ritorno, dal 28 gennaio al 1° febbraio, per riflettere di fronte all’immenso museo della morte e del terrore che sono i campi di sterminio. Ed è proprio dalla potenza del disegno di distruzione dei nazisti che si dice impressionata Chiara, dell’Istituto agrario di Pescia, mentre Melissa, del Convitto Cicognini di Prato, non può fare a meno di sottolineare come il fango e la neve, il freddo e il vento che hanno accolto i ragazzi toscani, abbiano presentato il volto peggiore di Auschwitz, rendendo ancora più comprensibili le sofferenze patite da chi in questo campo è morto di stenti demolito dal gelo, dalla fame e dalle malattie tanto da far invidiare chi era stato portato subito alla camera a gas.

«Chi dimentica il passato – è stato detto a Birkenau – è condannato a ripeterlo». Ma questi ragazzi vogliono innanzitutto sapere e capire per poi non dimenticare. Lo dimostra la composta partecipazione alla cerimonia che si è conclusa con una fiaccolata lungo quel binario maledetto che ha portato dentro ad Auschwitz 2 centinaia di convogli ogni volta con migliaia di persone ammassate come bestie e poi destinate direttamente alle camere a gas o al lavoro forzato. I quattro grandi crematori erano capaci di ridurre in cenere anche 5 mila persone al giorno.

«Dalle vostre fiaccole esce del fumo – ha detto l’assessore regionale all’istruzione, Gianfranco Simoncini, rivolgendosi agli studenti –, ma è un fumo che non ha niente a che vedere con quello che usciva da questi camini. Quello era un fumo di morte e di terrore. Il vostro è un fumo di speranza, di pace e di impegno».

Conversando con i giornalisti al seguito del Treno della Memoria, Simoncini, che ad Auschwitz rappresentava la Regione Toscana, ha poi ribadito il senso complessivo della manifestazione e dell’iniziativa: «Venendo qui i ragazzi vivono un’esperienza forte: vedono i campi, apprendono i numeri e le spaventose modalità dello sterminio. Tutto questo – a giudizio dell’assessore – provoca una risposta culturale e crea una coscienza diffusa».

«Prima avete calpestato il terreno dell’inferno, ora vedete quello che dell’inferno è rimasto», ha detto Ugo Caffaz, direttore generale dell’assessorato regionale all’istruzione, introducendo la seconda cerimonia di fronte al Muro della morte all’interno di Auschwitz 1. «Perché qui si moriva nei modi più efferati, eppure – ha spiegato Caffaz – esisteva anche la sentenza di condanna a morte per fucilazione».

Ripassare, uscendo, sotto la sbarra e l’inferriata con la triste massima «Il lavoro rende liberi», è stata per gli studenti toscani una liberazione momentanea perché ormai vivranno nel ricordo di quegli oggetti ammassati nel «Museo dello sterminio» (quintali di capelli tagliati, migliaia e migliaia di scarpe di grandi e piccini, le valige con i nomi sopra, gli occhiali, le ciotole, i vestitini dei neonati, le bambole spezzate…), che più di ogni altra cosa danno l’idea dei milioni di essere umani annientati, prima psicologicamente e poi materialmente, della ferocia nazista.

«Per fortuna – dice lo storico Giovanni Gozzini, docente di Storia contemporanea a Siena e da pochi giorni assessore alla cultura del Comune di Firenze – stiamo attraversando, a partire dal 1993, un periodo che non ha precedenti per interesse nei confronti dell’Olocausto. E più la memoria è viva, più se ne discute. Non è un caso che il massimo dell’oblio si sia vissuto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale».

Incontrando i ragazzi al Palasport di Cracovia, Gozzini ha voluto lasciar loro dei consigli: ricordatevi di non abdicare mai dalla vostra coscienza; guardatevi dalle generalizzazioni da applicare a ogni popolo; ricordatevi che razzismo e xenofobia fioriscono dove c’è ignoranza e non conoscenza degli altri.

Marcello, Andra e Tatiana: i testimoni «Grazie a Zio Adolfo sono diventato il più giovane prigioniero politico italiano». Oggi Marcello Martini è un omone grande e grosso, un toscanaccio settantasettenne di origine pratese che trova la forza di scherzare sul suo essere andato a braccetto con la morte per almeno 13 mesi e 210 chilometri. I 13 mesi è il periodo passato in un campo di concentramento dal giugno 1944 al luglio 1945; i 210 chilometri sono il tragitto fatto a piedi, in sei giorni, senza mangiare, a parte qualche ciuffo d’erba strappato sul ciglio della strada («e per fortuna qualche volta ci rimaneva dentro anche una lumaca!»), incolonnato con altri prigionieri per un forzato ritorno al «campo madre» di Mauthausen dopo essere stato assegnato al campo di Modling, vicino Vienna. «Ne rimasero per strada più di 200 – racconta Martini –, mentre una cinquantina non partirono nemmeno: li lasciarono lì con una puntura di benzina nel cuore».

All’epoca dell’arresto aveva solo 14 anni, ma compiva già importanti e pericolose azioni come staffetta partigiana: apparteneva al gruppo Radio Cora con mansioni di informatore. Fu arrestato a Firenze, portato dapprima al carcere delle Murate, poi al campo di transito di Fossoli, vicino Carpi, e quindi deportato a Mauthausen. Fu poi destinato al sottocampo di Wiener Neustadt e poi a quello di Modling.

Alla domanda su cosa lo abbia salvato, Martini risponde: «La solidarietà. Il lager – spiega – è tutto e il contrario di tutto, ma lì la solidarietà mi ha dato delle prove meravigliose. Non tanto l’aiuto materiale, perché se non hai niente non puoi dare niente e in un campo di concentramento non hai niente: sei nudo come un verme».

L’ex staffetta partigiana è stato uno dei testimoni che la Regione Toscana ha voluto sul Treno della Memoria e nella visita ad Auschwitz per dare agli oltre 500 studenti che hanno partecipato al viaggio in Polonia una testimonianza viva delle atrocità del regime nazista. E con Marcello Martini sono tornate Andra e Tatiana Bucci, che già avevano partecipato ai viaggi del Treno della Memoria nel 2004 a Majdanek – Varsavia e nel 2005 ad Auschwitz, trasmettendo ai giovani il ricordo del loro sguardo di bambine nell’inferno del lager, la dolorosa ferita della separazione dalla madre e dal cuginetto, la permanenza in orfanotrofio e poi l’incontro e l’abbraccio con la madre che riannodò un legame spezzato per oltre due anni.

Andra e Tatiana furono infatti deportate ad Auschwitz nel 1944, all’età rispettivamente di 4 e 6 anni, insieme al cugino Sergio De Simone di 6 anni.

Miracolosamente scampate alla crudele selezione del campo (che ha visto sopravvivere poco meno di una cinquantina di bambini su oltre 200 mila che vi sono stati deportati), Andra e Tatiana furono liberate il 27 gennaio 1945, il giorno della liberazione di Auschwitz e per questo data simbolo della Giornata della Memoria. Ma se Andra e Tatiana, dopo quasi un anno passato in orfanotrofio tra Praga e l’Inghilterra, poterono riabbracciare la madre originaria della Bielorussia, il cuginetto Sergio, invece, selezionato da Josef Mengele e usato come cavia in orribili esperimenti, non fece più ritorno a casa.

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