Dossier

La «Passione» secondo Mel

Dal mercoledì santo è nella sale italiane l’atteso film di Mel Gibson sulla Passione di Gesù, campione d’incassi e al centro di polemiche, scatenate soprattutto da alcuni ambienti ebraici per il suo presunto antisemitismo. “Il cinema – spiega in questa intervista don Dario Viganò, presidente della Commissione nazionale valutazione film della Conferenza episcopale italiana – non ha primariamente il compito di restituire o illustrare la storia. Ma a partire da essa, la reinventa, la reinterpreta… a volte la tradisce. Quando si ispira a una vicenda storica, il cinema, con il suo gioco di sguardi e finzione, attua una forza trasfiguratrice di quella vicenda, a partire dall’immaginazione e dal contesto culturale in cui il regista vive». Toscanaoggi lo ha fatto vedere in anteprima ad un noto biblista, don Carlo Bazzi, e al nostro critico cinematografico Francesco Mininni. Ecco il loro giudizio…

di Vincenzo Corrado“Il film di Mel Gibson sulla Passione di Cristo (The Passion of the Christ) è ulteriore prova di come i media si nutrono di se stessi, di come i prodotti non sono solo al culmine di un processo, ma anche all’origine di questo. Per un mese, infatti, abbiamo assistito alla presentazione mediatica di un film non ancora uscito nelle sale italiane, quindi ‘sconosciuto’ per i più; ma a cui sono state dedicate intere trasmissioni televisive, prime pagine di quotidiani, la copertina di settimanali. È questo il primo miracolo di The Passion”. È quanto rileva don Dario Edoardo Viganò, presidente della Commissione nazionale valutazione film della Conferenza episcopale italiana, a proposito del dibattito creato in questo mese attorno al film di Gibson. La pellicola, nelle sale americane dallo scorso 27 febbraio, uscirà in Italia il prossimo 7 aprile, mercoledì Santo. Abbiamo rivolto qualche domanda a don Viganò, che ha visto in anteprima il film.

Perché un film sulla Passione?

“Il desiderio di rappresentare il sacro, di dare forma al volto di Gesù non solo è un’aspirazione legittima, ma risponde anche a un’esigenza della fede cattolica che riconosce nell’incarnazione del Figlio la rivelazione piena e definitiva del Padre. Attorno a questo tema sono scaturite, nelle varie espressioni artistiche, diversi modi di rappresentare la vita di Gesù che corrispondono ad altrettante personali interpretazioni di tale vicenda. Il cinema ha già offerto numerosi volti di Cristo, dalle primissime Passioni girate all’indomani della nascita della settima arte ai film di Pasolini, Zeffirelli, Rossellini, Scorsese, fino al recente I giardini dell’Eden (1997) di D’Alatri. La molteplicità di queste rappresentazioni costituisce una sorta di antologia visiva che, mentre contribuisce ad accedere in parte almeno al mistero di Gesù, evidenzia la difficoltà di rispondere all”altezza del soggetto’ rappresentato”.

Come porsi dinanzi alla figura di Cristo proposta da Mel Gibson?

“Tutte le realizzazioni cinematografiche su Cristo possono essere accolte come inviti a rivolgere la propria attenzione sulla sua persona, a interrogarsi sulla sua vita… Nessuna di queste, però, può pretendere di incarnare in modo assoluto l’oggettività di un avvenimento, che trascende ogni possibile descrizione. Del resto, la prima testimonianza in questo senso viene proprio dai Vangeli. La Chiesa ne ha ben quattro non per incapacità narrativa quanto piuttosto per una necessaria polifonia nel consegnare la pienezza della verità sulla figura di Gesù e sulla sua storia”.

Si è parlato di fedeltà storica di The Passion…

“Il cinema – la macchina dei sogni, come veniva definito alle sue origini – non ha primariamente il compito di restituire o illustrare la storia. Ma a partire da essa, la reinventa, la reinterpreta… a volte la tradisce. Quando si ispira a una vicenda storica, il cinema, con il suo gioco di sguardi e finzione, attua una forza trasfiguratrice di quella vicenda, a partire dall’immaginazione e dal contesto culturale in cui il regista vive. Nel suo film, Gibson, basandosi sui quattro Vangeli, su alcune fonti apocrife e sugli scritti della mistica tedesca Anna Caterina Emmerick, mette in scena il dramma delle ultime dodici ore della vita di Cristo. La prospettiva di Gibson non rientra dunque nell’iconografia romantica, codificata ad esempio da Franco Zeffirelli nel suo Gesù di Nazareth (1977). Gibson sceglie un’interpretazione del volto sfigurato di Cristo che richiama le rappresentazioni iconografiche del 1500-1600. In questo scenario si spiega il ricorso a due lingue, l’aramaico e il latino, che pur non avendo alcuna valenza documentaristica, conferiscono al film una forte intensità. Se il desiderio di una ricostruzione del contesto storico è legittimo, non può essere però assunto come elemento per intraprendere un dibattito circa la fedeltà storica del film. Non è una ricostruzione più attendibile della vita di Gesù a infondere più certezza alla fede. Tanto meno è concepibile rimediare alle ‘lacune’ dei Vangeli, ricorrendo a immagini devozionali – come la Veronica e le tre cadute del Cristo – che non possono costituire il patrimonio di fede di tutta la Chiesa. Ciò può aiutare la pietà, ma non sostituire il dovere del credente di misurarsi con la ragione e le sue esigenze critiche”.

Cosa pensa delle accuse di antisemitismo e di immagini troppo violente?

“Il processo di schematizzazione dei ruoli, inevitabile in una realizzazione cinematografica, non deve dare origine a fraintendimenti: la responsabilità della condanna inflitta a Gesù non è del popolo ebreo, ma di tutta l’umanità peccatrice, cui peraltro non mancano di rinviare i vari soggetti coinvolti. Per quanto riguarda, invece, la rappresentazione della violenza su Gesù: il film la presenta in modo iperbolico. La violenza, enfatizzata non solo dalle immagini ma anche dall’utilizzo del rallenty, è reiterata, quasi a presupporre che, data la sua crudezza insostenibile, la Risurrezione appaia elemento di maggiore efficacia salvifica. La straordinarietà della Risurrezione sarebbe in qualche modo proporzionale alla violenza subita. La dimensione salvifica della morte di Gesù, invece, non si fonda sulla quantità del dolore subito. La prospettiva della Risurrezione, che nei Vangeli é la chiave di tutto, non può limitarsi all’inquadratura conclusiva, perché è il codice interpretativo interno della Passione”.

Quale elemento del film l’ha maggiormente colpita?

“Il film è disseminato di inquadrature davvero interessanti. Lo sguardo di Gesù non è mai assente, ma incontra sempre altri sguardi, ora della Madre, di Maria Maddalena, ora del cireneo, del ladrone, della veronica, di Satana… Accanto alle ‘soggettive’ su Cristo (inquadrature riprese dal punto di vista dell’attore, che tendono a far identificare lo spettatore con il personaggio ndr), è molto interessante l’inquadratura dall’alto situata qualche istante prima della morte sul Calvario, che a un tratto si trasforma in goccia d’acqua: cadendo velocemente sulla terra accanto alla croce. La caduta di questa goccia coincide con l’inizio del terremoto e la rovina del tempio. Un’inquadratura questa che può evocare il pianto di Dio sul figlio che sta morendo. Lo stesso regista ha affermato che ‘il vero messaggio del film è il perdono. La lacrima di Dio che piove dal cielo nel momento in cui Gesù muore significa questo'”.

Negli stessi giorni in cui uscirà in Italia The Passion, ritornerà nelle sale, restaurato, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Quali differenze tra questi due film?

“Sono due testi emblematici di come il contesto in cui nascono determini in maniera sostanziale l’immaginario religioso e, in particolare, la rappresentazione di Gesù. The Passion presenta, almeno inizialmente, alcune armoniche con Il Vangelo secondo Matteo. Ad esempio, le connotazioni di stampo grünewaldiano che, per Pasolini però non rappresentano, tranne che nella disperazione di Maria sotto la croce, un riferimento esplicito pur essendo state fin dall’inizio una fonte ispiratrice. E ancora: il tema del Cristo sofferente e la stessa crisi religiosa di Pasolini che nasce dalla percezione di morire sotto l’arroganza di un materialismo fanatico. Ma mentre Pasolini gira per sottrazione cioè essenzializzando gli elementi, Gibson gira per accumulo nel senso che enfatizza”.

The Passion, un atto di intensa devozione

La recensione di Francesco Mininni