Dossier

Viaggio nelle parrocchie toscane

Ha ancora senso la parrocchia? Come deve cambiare per poter essere presenza incisiva e significativa sul territorio? Sono domande che la Chiesa italiana si pone da tempo e che a settembre, nei giorni in cui le comunità riprendono le loro attività, diventano particolarmente attuali. Toscanaoggi mette a confronto idee, esperienze, testimonianze per capire come cambia il volto delle parrocchie e come le singole comunità cercano di rispondere alle esigenze della nuova evangelizzazione.Parrocchie: rinnovarsi o morire. Intervista a mons. Gaetano Bonicelli di Elisabetta TollapiProprio ieri abbiamo avuto una riunione interparrocchiale degli educatori che ci ha riempito il cuore. Vedere infatti catechiste di ogni età, che fino all’anno scorso neanche si conoscevano, ragionare e progettare insieme, tutte entusiaste dei testi dell’Acr che sono stati presentati da una di loro e con i quali animeranno gli incontri di catechesi per i ragazzi di Albinia, Marsiliana e Polverosa, è stata veramente una bella soddisfazione». Così don Mariano inizia a parlare dell’esperienza di unità pastorale che da un anno è in atto, in diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello, nelle tre parrocchie della «Statale 74»: Albinia, una cittadina di 5000 abitanti in continua espansione, Polverosa e Marsiliana, due parrocchie rurali sparse per un territorio vastissimo; in pratica dal mare dell’Argentario si arriva alle colline mancianesi per un totale di circa 7000 abitanti.

«Certo che il lavoro è aumentato – continua don Alessandro che era già parroco della sola Albinia – soprattutto a livello di programmazione e gestione. Ci sono da tener presenti abitudini, tradizioni e sensibilità diverse, anche se in realtà Albina e Polverosa in passato avevano già collaborato con buoni frutti».

La sensazione che si prova a parlare con i due sacerdoti, molto diversi per carattere ed esperienze, è che riescono a «ragionare con una testa sola» quando si parla di impegno pastorale, pur rimanendo ognuno con le proprie idee e particolarità per tutto il resto. «È importantissimo e direi fondamentale, in questo tipo di esperienze, lasciare da parte ogni personalismo, altrimenti è tutto inutile. Noi abbiamo un patto implicito: ognuno ha la sua vita privata e nessuno ci mette il naso, ma per ciò che riguarda l’apostolato, abbiamo il dovere di fare di tutto per uniformarci a seguire una sola linea comune» – su questo sono categorici – «altrimenti è inutile fare programmi, progetti e propositi: se i “coparroci” non progettano ed agiscono insieme, in comunione, l’unità pastorale rimane utopia».

Così, seppure genericamente ci sia una certa divisione dei compiti, i due sacerdoti, anzi tre, se ci mettiamo anche don Pietro, sacerdote in pensione che all’età di 86 anni s’impegna ancora come un giovanotto, sono in tutto intercambiabili. E di questo la gente pian piano si sta rendendo conto, apprezzando il principio che, andando in parrocchia, può trovare la persona giusta per ogni esigenza e per ogni età.«Problemi? – ci dicono i due sacerdoti anche in questo d’accordo – Sono soprattutto di mentalità, in particolare per la gente che frequenta meno la vita parrocchiale. Ad Albinia non c’è problema perché vedono un prete in più e… male non fa; così a Polverosa che, essendo piccolissima come comunità e in diretta continuità territoriale con Albinia, considerano la cosa come inevitabile. Invece a Marsiliana, che ha quasi sempre avuto il parroco residente, specie all’inizio c’è stato qualche mugugno. A distanza di un anno, la minoranza che frequenta dimostra di apprezzare la nuova impostazione, più razionale ed organizzata, mentre per gli altri occorrerà avere un po’ di pazienza. Quando infatti si considera il parroco residente come un diritto acquisito, che ci deve essere come la posta, la banca o… il monumento ai caduti, vagli a parlare di progettazione comune, di unità d’intenti, di Chiesa che cammina insieme, di evitare l’isolamento del prete, di scarsità di vocazioni consacrate e dell’importanza della responsabilizzazione dei laici… continueranno a dire che sono discriminati perché gli altri paesi hanno il prete e loro no».

«E infine c’è il vantaggio umano – conclude don Mariano – Dopo dieci anni di parrocchia da solo mi ero “sistemato”, abituato al tran tran di tutti i giorni, senza confronti e stimoli nuovi. Qui sono sempre sulla corda, mi confronto continuamente con i confratelli… insomma, mi sento ringiovanito. Il giorno che anche i laici parteciperanno alla gestione comunitaria della parrocchia, come avviene al nostro missionario fidei donum don Gianluca in Mozambico, sarà un bel giorno per la Chiesa postconciliare e… personalmente mi piacerebbe esserci anch’io!».

Sono presenti a Firenze da oltre 100 anni, hanno celebrato quest’anno il centenario della posa della prima pietra, hanno incontrato migliaia e migliaia di persone, sono stati in contatto con migliaia di giovani, sono un punto di riferimento per il quartiere, il loro cortile attira centinaia di ragazzi, sono nati, come diceva il suo fondatore «per i ragazzi e per i giovani» perchè diventino «buoni cristiani ed onesti cittadini», hanno unafiorente e fornita libreria: sono i Salesiani a cui è affidata la parrocchia della Sacra Famiglia e l’Oratorio di Via Gioberti, una parrocchia che conta ben 6.000 abitanti.La Comunità Salesiana è composta da cinque sacerdoti e da un coaudiatore, in un periodo storico non facile, ma dove lo stile educativo di don Bosco è ancora attuale e attualizzato. Don Bosco in persona volle qui una grande chiesa, che potesse diventare punto di riferimento il quartiere.

Don Gianni D’Alessandro, parroco di questa chiesa da pochi mesi, ha raccolto il testimone di chi prima di lui ha lavorato in questa comunità parrocchiale e lavora per tenere vivo il carisma salesiano. «Don Bosco è nato contadino, con la concretezza delle sue origini e l’educazione robusta e tenera ricevuta dalla sua mamma, rimasta presto vedova con tre figli piccoli. Egli ci ha trasmesso un modo originalissimo di vivere la vita, senza tanti fronzoli, concreta, gioiosa, con la convinzione che Dio è vicino a ciascuno di noi, anche nel ragazzo che la società rifiuta o emargina. Il sistema educativo di Don Bosco si basa sulla Ragione, da valorizzare in ogni ragazzo, sulla Religione, senza la quale è difficile affrontare la fatica di accogliere i sacrifici che la vita ti presenta, e l’Amorevolezza, una simpatia che ti mette dalla parte dei ragazzi, facendogli capire che lui è al centro del tuo interesse educativo, e che se è necessario tu sei disposto a dare la vita per lui. Questo sistema vale anche a Firenze, come in ognuna delle 128 nazioni del mondo dove sono presenti i salesiani».

Ma il «modello salesiano» si sposa con i compiti e gli impegni di una parrocchia? All’inizio della sua missione don Bosco aveva rinunciato a fare il parroco, e aveva invitato i suoi primi collaboratori a non prendere parrocchie. «È vero – dice don Gianni – noi salesiani siamo nati “per i ragazzi e i giovani”. Per questo all’inizio Don Bosco non voleva accettare le parrocchie, dove il tempo da dedicare ai giovani è forzatamente ridotto. Ma la parrocchia è importante anche in considerazione dei ragazzi: in parrocchia vengono avvicinate le famiglie, il nucleo educativo più incisivo nello sviluppo della vita di una persona. Parlo espressamente delle famiglie giovani con figli da crescere e educare in un tempo dove prolificano i falsi maestri, le agenzie educative più sballate. E Don Bosco stesso accettò le parrocchie (le prime furono a Genova e a Buenos Aires). I salesiani dovrebbero accettare le parrocchie “in zona popolare e giovanile”: forse queste caratteristiche non si ritrovano nella zona della parrocchia della Sacra Famiglia, che però ha una sua giustificazione perché Don Bosco in persona volle qui una grande chiesa; inoltre qui convengono ragazzi e giovani anche da altre parrocchie. Senza dimenticare l’incidenza educativa che qui i Salesiani esercitano anche con la Scuola».

di Chiara DomeniciSi chiama EAP, ovvero Equipe di animazione pastorale ed è il nuovo progetto che la Diocesi di Livorno sta portando avanti da quasi un anno nella parrocchia di San Giusto a Parrana, frazione collinare ad una trentina di km dalla città.

Coloro che si impegnano in prima persona nel progetto sono due laici: Giusy D’Agostino e Roberto Vecce ed un sacerdote, don Dider Okito W’Okito Lungangula, proveniente dal Congo democratico (ex Zaire), con l’appoggio del vescovo Diego Coletti e del vicario monsignor Razzauti.

Si tratta di un’idea abbastanza semplice, basata sui dettami del Concilio Vaticano II, ma con alle spalle un lungo cammino di formazione, di studio ed una esperienza di parrocchia senza pastore fisso: fare in modo che la parrocchia abbia non uno (il parroco), ma tre referenti (due laici ed un amministratore parrocchiale), che «gestiscano» la comunità insieme e stimolino continuamente nuove forze all’interno della comunità stessa.

«All’inizio – spiega Giusy – non sapevamo neppure noi cosa fare e come sarebbe andata, ma con l’andare del tempo ci siamo fidati l’uno dell’altro, ci siamo proposti come prima cosa di essere accoglienti e disponibili e la gente ha compreso. Adesso fanno riferimento a noi indistintamente per qualsiasi problema: ci siamo presentati per come siamo, con carismi e vite diverse: un laico con famiglia, una donna non sposata, un prete straniero… con un bisogno reciproco l’uno dell’altro e questo è servito a dare e a darci nuova fiducia».

«La parrocchia non è grande – aggiunge Roberto – sono solo 250 abitanti, ma è come un piccolo bonsai: un albero in tutto e per tutto. Ci sono comunioni, matrimoni, battesimi, funerali… e quindi catechismo dell’iniziazione, preparazione al matrimonio, ecc. Il nostro compito è quello di accompagnare questi fedeli nella fede ed in un certo senso aiutarli a capire che la chiesa è loro ed il loro impegno è fondamentale».

«Trovare nuove energie sul posto è fondamentale – incalza don Dider – adesso stiamo lavorando con un gruppo di ragazzi per l’animazione della Messa: la partecipazione alla celebrazione domenicale è in aumento e questo mi fa pensare che il nostro impegno inizi a dare i suoi frutti».«Di difficoltà da superare ce ne sono ancora tante – sottolinea Giusy – ad esempio il tempo, che è sempre poco: praticamente la vita della comunità gravita intorno alla Messa della domenica mattina. E poi i lontani, che pur accettandoci non partecipano alla vita della parrocchia; ma anche tanti altri piccoli e grandi problemi che però hanno anche tutte le altre comunità parrocchiali. Certo è che l’abitare in periferia non è poi così negativo: i rapporti tra le persone sono diversi, i sentimenti di amicizia e di solidarietà sembrano più profondi; tutti si conoscono, parlano, ed il tempo è come rallentato: la gente si ritrova in chiesa e si ferma, senza guardare l’orologio». di Giovanni De RobertisParroco della Collegiata di Castiglion FiorentinoLa parrocchia della Collegiata di Castiglion Fiorentino (in diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro) è inserita, insieme ad altre 33 parrocchie italiane, nel cammino proposto dall’ufficio CEI di pastorale familiare: «Progettare la pastorale con la famiglia in parrocchia». Dopo due anni siamo ancora alla fase dello studio e della riflessione. Subito, pur nella gioiosa consapevolezza della validità della proposta e nella speranza di poterla attuare, si sono fatte vive le prime difficoltà. Soprattutto il parroco ne ha risentito, abituato com’è a considerare la famiglia unicamente un settore della pastorale, un «oggetto» di sollecitudine, coinvolta per ricevere servizi e non pensata come soggetto pastorale. Siamo alla fatica della conversione: ribaltare la prassi attuale, avviarci a ripensare una pastorale «con» la famiglia e non solo «per» la famiglia.

Via via ci siamo resi conto che in concreto tutto questo ci portava a progettare insieme alla famiglia le iniziative pastorali con l’obiettivo primario di individuare ciò che di specifico genitori e figli possono offrire come «dono–risorsa» alla vita della comunità. «Progettare la pastorale con la famiglia in parrocchia»: non si tratta di uno dei tanti espedienti per una nuova strategia pastorale, ma affonda le sue radici nella natura stessa del matrimonio che costituisce la famiglia soggetto attivo e responsabile della missione della Chiesa.

Il primo passo intrapreso – e che ancora ci occupa – è consistito in una sistematica opera di formazione teologica, spirituale e culturale degli sposi e dei sacerdoti, per renderci consapevoli che il sacramento del matrimonio per sua natura fonda una insostituibile ministerialità dentro la comunità cristiana e che la famiglia è, a pieno titolo, accanto al parroco, destinata al servizio della comunità degli uomini.

Gli incontri tra di noi, le sollecitazioni della Chiesa locale, la costante partecipazione di coppie e del parroco ai convegni di studio promossi dall’Ufficio CEI ci stanno sostenendo nel nostro cammino e ci aiutano a verificarne i motivi di fondo.

I convegni, poi, ci hanno dato la preziosa opportunità di incontrarci con le varie realtà ecclesiali di ogni parte d’Italia che vivono con noi il solito cammino. Le diverse esperienze, le difficoltà, i tentativi, le speranze e le certezze che stanno impostandosi sono state motivo di confronto e di incoraggiamento. In tutti sta crescendo il convincimento che ci troviamo all’incrocio di una svolta epocale della nostra pastorale: riscoprire e rivivere il vero volto della parrocchia come famiglia di Dio, vera famiglia di fratelli, una casa fraterna ed accogliente che vive in mezzo alle case dei suoi figli. Da tutto questo esce fuori il volto di una Chiesa articolata in una molteplicità di comunità locali o parrocchie, che a loro volta sono costituite dalle famiglie o «chiese domestiche». In tale dinamismo il rapporto tra parrocchia e famiglie si presenta come un continuo scambio di doni, di capacità e di impegni, in un rapporto di interazione e di reciprocità. Nella nostra parrocchia ci stiamo movendo, anche se a piccoli passi ma con lo stupore di chi scorge sempre nuovi orizzonti. Diverse famiglie, sollecitate e accompagnate dal gruppo-guida del progetto, stanno interessandosi a programmare e a seguire personalmente la catechesi dei loro figli e considerarla momento fondamentale della loro esistenza e della loro opera educativa. Così stanno nascendo piccole ma significative esperienze di comunione, di preghiera, di servizio e di accoglienza che stanno dando una connotazione familiare alla parrocchia.

Il cammino è lungo, lo sappiamo bene, tanti altri segni sono da pensare da costruire e proporre, la partecipazione e la comunione devono ancora diventare stile di vita e di relazione, un più convinto coinvolgimento di tutta la comunità parrrocchiale è ancora da maturare.Continueremo il nostro cammino con la ferma convinzione che il Signore guiderà i nostri passi e che ci sosterrà l’accoglienza materna della Chiesa.