Lettere in redazione

La Chiesa ha bisogno di soldi e di banche

Spesso si parla di «ricchezza» della Chiesa senza riflettere che una istituzione che conta oltre un miliardo di cattolici necessita di risorse per mantenere le proprie strutture e per svolgere la propria missione. Le opere umanitarie e di promozione sociale della Chiesa nel mondo sono innumerevoli e «senza lilleri non si lallera» si dice dalle mie parti. Anche all’interno della Chiesa, dopo le note vicende dello Ior, qualcuno si domanda se non sarebbe più opportuno per il Vaticano far transitare il denaro attraverso normali banche, per evitare il rischio di finire in strane operazioni di riciclaggio di danaro di dubbia provenienza, ma anche quest’ultima soluzione comporta dei rischi; chi garantisce che eventuali investimenti non favoriscano aziende produttrici di armi o di pillole abortive?

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La Chiesa non può fare una scelta totalmente pauperistica, rinunciando a qualsiasi contatto con il «vile denaro». Su questo credo che oggi non ci siano più dubbi. Ma questo rapporto con i soldi deve comunque essere improntato alla legge del Vangelo, prima che a quella degli uomini. È un tema molto complesso e non ho certo la pretesa di dire qualcosa di originale. Vorrei solo cercare – nei limiti del possibile – di fare un po’ di chiarezza sullo Ior, del quale si parla molto sui giornali, senza mai spiegare bene che cos’è e quali compiti abbia. L’Istituto per le Opere di Religione (Ior), venne creato da Pio XII nel 1942, in piena guerra mondiale, per raccogliere e gestire fondi a sostegno delle Chiese particolari di tutto il mondo.

Non è quindi propriamente una «banca», ma una Fondazione, che in base al suo Statuto (art. 2), ha lo scopo «di provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati allo Ior medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità». Nel mondo non c’è solo l’Italia, o l’Europa. Ci sono anche Paesi retti da oppressive dittature (si pensi, ad esempio, alla Corea del Nord), altri dilaniati da guerre civili. Capisco allora che sostenere le Chiese o realtà caritative e pastorali in quei Paesi sia un compito arduo, che richiede la massima riservatezza, canali alternativi di distribuzione dei fondi e anche – talvolta – il mettersi in contrasto con le autorità locali. Certe operazioni del passato – penso al sostegno a chi in Polonia lottava per la democrazia e la libertà – sono oggi più difficili, anche per una Fondazione che ha sede nello Stato del Vaticano. E dobbiamo anche riconoscere che in passato, specie nel periodo della direzione di Marcinkus, sono state compiute operazioni di cui come Chiesa non possiamo che vergognarci.

La Convenzione monetaria firmata con l’Unione europea nel 2009, imponeva alla S. Sede di varare norme di trasparenza finanziaria. Benedetto XVI lo ha fatto con coraggio e decisione, anche per chiudere totalmente con il passato, istituendo con un «motu proprio» del 30 dicembre 2010, l’Autorità di informazione finanziaria (Aif), poi modificata con qualche «aggiustamento» tecnico da un decreto del 25 gennaio scorso. Essendo stata eretta come persona giuridica canonica, l’Aif è un organismo autonomo ed indipendente con incisivi compiti di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo nei confronti di ogni soggetto, persona fisica o giuridica, ente ed organismo di qualsivoglia natura dello Stato della Città del Vaticano, compresi quindi i Dicasteri della Curia e tutti gli organismi ed enti dipendenti dalla Santa Sede. Presieduta dal card. Attilio Nicora, controlla non solo le attività finanziarie dello Ior, ma anche quelle dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), che gestisce i fondi derivanti dall’Obolo di San Pietro, sostenendo tutte le attività della Curia romana.

Un’ultima considerazione sulla domanda che il lettore pone in fondo: «Potrebbe la Santa Sede utilizzare le “normali banche”»? La risposta è già nelle cose. Da sempre lo Ior, che una banca appunto non è, si è servito per le sue operazioni finanziarie dei normali istituti di credito, posti in vari Paesi del mondo. Ed è proprio l’esigenza di poter continuare a farlo, come in passato, che impone alla Santa Sede di applicare rigorose norme di trasparenza e contro il riciclaggio.

Claudio Turrini