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Terra Santa, resta tormentata la strada della pace

Abu Mazen è il primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese dopo un tormentato braccio di ferro con Arafat. Sullo sfondo, un oggetto misterioso, la road map americana. Sta per percorso di pace fra israeliani e palestinesi scandito secondo modi e tempi della diplomazia americana. Nel 2005, se tutto dovesse procedere per il meglio, la road map partorirebbe un nuovo stato nel Medio Oriente, il Palestinese.DI PIER ANTONIO GRAZIANI

di Pier Antonio GrazianiAbu Mazen è il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese dopo un tormentato braccio di ferro con Arafat. Sullo sfondo, un oggetto misterioso, la road map americana. Sta per percorso di pace fra israeliani e palestinesi scandito secondo modi e tempi della diplomazia americana. Nel 2005, se tutto dovesse procedere per il meglio, la road map partorirebbe un nuovo stato nel Medio Oriente, il Palestinese.

Visti i precedenti è difficile prevedere come andrà a finire. Anche perché non è chiaro cosa si aspettino israeliani e americani da un Abu Mazen che abbia ridimensionato ruolo e poteri del vecchio interlocutore Arafat considerato, solo lui e nessuno della controparte, come inaffidabile. Abu Mazen, ancorché moderato, non è certo un infiltrato nelle file palestinesi ed è quindi incomprensibile non tanto la resistenza di Arafat nei suoi confronti quanto aver fatto del suo potere nell’Autorità palestinese una condizione per sciorinare in pubblico il contenuto della road map. Che ora come ora, a pentola coperta, visto quel che è capitato nel passato anche recente, sembra un’incognita da aggiungere alle tante che hanno lastricato la tormentata strada della pace «sì», la pace «no», la pace «ni», ovverosia uno Stato palestinese «sì», uno Stato palestinese «no», uno Stato palestinese «ni».

Ad occhio e croce non sembra possibile che una pace accettabile possa stare nella formula di uno Stato palestinese «ni». Ci spieghiamo: quando il processo di pace raggiunse, a Camp David, il suo momento più alto negli incontri ravvicinati Arafat-Barak con la supervisione di Clinton, le speranze di concludere non caddero tanto, o soltanto, perché Arafat non sfruttava l’occasione quanto per la difficoltà di un Barak, nonostante la sua buona volontà, di andare oltre la restituzione del grosso della vecchia Cisgiordania. Si teneva strette in mano, infatti, le chiavi delle porte del nuovo Stato, il controllo delle acque del Giordano (e nessuno può negare l’importanza di questo particolare), l’imbracatura israeliana per strade e controlli di macchie di una sovranità non solo debole ma anche frazionata.

Ora lo Stato palestinese che diciamo «ni» somiglia molto alla riserva indiana d’America che, appunto, Stato non è, non è mai stato e mai lo diverrà. Ma anche chiamarsi Stato, nelle condizioni finora date, non vuol dire di esserlo davvero. Sharon, è vero, ha detto di essere pronto a concessioni dolorose. Non è da mettere in dubbio il dolore e neppure la volontà ma sta di fatto che la Palestina è già tanto dimagrita, dal ’48 al ’67 in poi, da dover rinunciare realisticamente al rientro dei profughi cacciati nel ’48.

Sicché difficilmente la pace potrebbe riposare sul precedente delle concessioni di Barak con lo sconto a favore di Israele perché Sharon, ancorché più disponibile, dovrebbe spostarsi anche a sinistra del suo predecessore laburista.Eppure la pace deve passare da qui: concessioni palestinesi sul rientro dei profughi ma anche nessuna riserva indiana. E già è difficile pensare che il tanto sangue versato sia cancellabile nella memoria delle due parti con la firma di un accordo ma, road map o non road map, disastroso sarebbe riporre fiducia nella pace «ni».

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