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25 aprile: festeggiare e, come allora, finalmente iniziare a pensare alla ricostruzione

Fu, quel 25 aprile, la sconfitta del fascismo, la fine di una dittatura all’inizio amata da tutti o, meglio, non osteggiata dalle masse (alle masse capita spesso di farsi sedurre da demagoghi abilissimi con le parole). Osteggiare significa rimetterci di persona, andare controcorrente: e nel tempo del consenso furono pochi, anche se luminosi, quelli che ebbero il coraggio necessario.

Fu, quel 25 aprile, culmine e avvio di una lotta dalle molte sfaccettature: lotta di partigiani armati di mitra e in certi casi anche di Vangelo; lotta silenziosa di un popolo stanco; lotta potente di eserciti alleati; lotta che qualcuno vedeva come l’inizio di un’altra lotta, illuso che a Est il sole fosse dell’avvenire; lotta che per altri, invece, avrebbe dovuto portare a una democrazia personalistico-comunitaria, a una Costituzione nobile, al sogno di un’Europa unita.

Accadde tanto dopo quel 25 aprile. Non mancarono violenze, ritorsioni, furbizie. Ma la strada comune parlava la lingua della ricostruzione.

E anche grazie a una politica fatta di contrapposizioni e passioni, di ideali e progetti, interpretata da chi con il fascismo aveva sofferto per tener fede ai propri valori, fu proprio quella parola («Ricostruzione») a vincere. Con tanti limiti, certo, ma anche con una sapienza condivisa.

E oggi? Che significa questo strano 25 aprile al tempo di un virus che non ci fa abbracciare, ci tiene a distanza, ci fa sospettare gli uni degli altri, riempie bare e rischia di svuotare la voglia di reagire?Per qualche nostalgico sguaiato (ma sta robaccia non inizia ora) il 25 aprile neppure andrebbe festeggiato perché festa «di parte» e non di popolo: quel popolo che anche quest’anno, non in piazza, canterà il fascino di una «Bella ciao» mai cantata dai partigiani ma diventato straordinario inno globale alla libertà. Al netto di quelle nostalgie, come celebrare questo incredibile 25 aprile che ci vedrà chiusi in casa?

Terrore e tremore, a star dietro alla lezione della storia, stanno dietro l’angolo. La grande epidemia di un secolo fa – cui dettero un nome gentile richiamante focosità, bellezza, amore – fu seguita e accompagnata da dittature. E se la paura individuale è comunque brutta ma facilmente affrontabile, la paura collettiva, quella delle masse, può portare a disastri: oggi con una facilità, una rapidità, ancora maggiori vista la potenza dei sistemi con cui oggi miliardi di persone sono manipolabili e, anzi, accettano di esserlo.

Che fare in un 25 aprile che il virus può aiutarci a vedere in modo non retorico? Che fare per andare alla radice vera di una festa troppo spesso ridotta a indifferenza, gita fuori porta, corteo scontato, rito stanco?

Perché non provare, come Teresio Olivelli, a chiedere al nostro Dio quella «forza della ribellione» che a lui, e a tanti come lui, servì per affrontare la prova più dura? Perché non riflettere su quel brano, straordinario anche perché scritto nel 1944, di Aldo Moro che invitava «tutti a fare con semplicità il proprio dovere»? Perché non pensare al posto che ciascuno di noi potrà avere nella ricostruzione post Covid-19 preferendo, alle facili lusinghe dei nuovi Guglielmo Giannini, il rigore controcorrente del vecchio Alcide De Gasperi?Le tre parole fondamentali nel 25 aprile della democrazia italiana – ribellione, riflessione, ricostruzione – possono esserlo anche 75 anni dopo. Davanti a un nemico che pretenderebbe di impedire gli abbracci. Trovare come, sta a ciascuno di noi.