Opinioni & Commenti

Enrico Rossi e i rischi del «macchinista ferroviere»

Con la nascita di «Articolo1-Movimento Democratico e progressista» di Enrico Rossi, Arturo Scotto e Roberto Speranza e la condivisione unanime (per ora) delle regole per il Congresso da celebrare subito dopo le primarie del 30 aprile, cala il sipario sullo psicodramma del Pd. Ma gli insulti e i colpi bassi che continuano a lanciarsi i vari leader fanno pensare che si sia solo al primo atto.

Che la fusione a freddo di ex-comunisti ed ex-dc di sinistra, varata 10 anni fa, dopo la risicata vittoria di Romano Prodi alle politiche, non fosse riuscita del tutto lo si era capito da tempo. Il combinato disposto della sonora sconfitta al referendum del 4 dicembre e della «bocciatura» da parte della Consulta del ballottaggio previsto dall’«Italicum», ha portato allo scoperto divergenze e sensibilità mai ricomposte. Con la fine del maggioritario non conviene più indossare la camicia di forza dell’unico simbolo. Tanto vale andar ciascuno per conto proprio. E casomai allearsi dopo il voto, minacciando di far cadere i governi se poco considerati. Senza tener conto, però, che se la prossima legge elettorale sarà marcatemente proporzionale, non così è per Comuni e Regioni, dove da tempo funziona egregiamente un sistema maggioritario. Insultarsi a Roma per contendersi i voti e poi allearsi in periferia non è proprio il massimo.

Certo il segretario dimissionario del Pd c’ha messo del suo, con quei suoi modi spicci e arroganti e l’ostinazione con cui ha cercato di portare a casa la nuova legge elettorale e la riforma della Costituzione. Sulla leadership del partito le critiche sono più che legittime. Ma sostenere, come ha fatto Enrico Rossi, che il Pd si è «snaturato», «facendo politiche di stampo economico neo-reaganiano» che «hanno poco a che fare con il centro-sinistra» suona a dir poco esagerato.

Rossi governa la Toscana dalla primavera 2010 e da Renzi ha avuto il via libera nel 2015 per un secondo mandato, senza passare dalle primarie. Pur con qualche accento critico ha condiviso le grandi scelte nazionali, fino a votare sì al referendum del 4 dicembre. Forse lo ha fatto per convenienza, ma sul piano del governo della Regione i due sembravano davvero alleati. Solo un anno fa, pur lanciando la sfida alla segreteria del Pd, Rossi si era detto «sorpreso in meglio» da Renzi «perché sui temi si impegna e dimostra una coerenza di impegno. A lui – aveva aggiunto – do un 6 e mezzo per le misure prese» dal governo «e qualcosa di più per capacità di tenuta del paese in un momento difficile».

Rossi afferma che compito della nuova formazione sarà «recuperare alla politica quei ceti popolari che non guardano più al Pd ed impedire che finiscano in bocca alla destra: trumpista e del nostro paese, che non è molto diversa poi». Questo già in presenza di Sinistra italiana, nata più o meno negli stessi giorni, e del «campo progressista» di Giuliano Pisapia. E, come Bersani e D’Alema, accusa Renzi di aver già causato la scissione «nel popolo del Pd», prima ancora che nella sua classe dirigente.

Ma i numeri dicono altro. L’Ulivo nel 2001, nonostante la sconfitta di Rutelli, aveva 16 milioni di voti. Ma Ds e Margherita ne raccolsero solo 11 milioni e mezzo. Nel 2006, con il ritorno di Prodi, l’Ulivo (che faceva parte della grande coalizione dell’Unione, comprensiva di Rifondazione comunista) ne prese quasi 12 milioni, ma al Senato, dove i partiti si presentavano con i vecchi simboli, i Ds furono poco sotto i 6 milioni di voti e la Margherita ne ebbe 3 milioni e 600 mila. Fu l’anno dopo che nacque il Partito democratico con il «sì» dei congressi dei due partiti. Anche allora ci fu chi non accettò il risultato, con Fabio Mussi, leader del «correntone», che – con programmi simili a quelli oggi di Rossi – cercò di portare il suo 15% nella nuova formazione di «Sinistra democratica», che aveva l’ambizione di unire le forze della sinistra. Quella scissione non pesò se alle prime politiche, quelle del 2008, il Pd portò a casa 12 milioni di voti, quanti ne aveva avuti l’Ulivo due anni prima. Casomai l’emorragia avvenne dopo, con le segreterie di Veltroni, Franceschini e Bersani. Alle Europee del 2009 il Pd prese 8 milioni di voti. Alle politiche del 2013, 8 milioni e 600 mila. Per poi tornare con Renzi segretario a 11 milioni e 200 mila alle Europee del 2014. Un risultato eccezionale, si dirà, che oggi non potrebbe ripetere. Ma nessuno dei leader si chiede quanto questi litigi personali allontanino davvero il cittadino elettore?

Il 31 maggio 2015 656 mila toscani hanno riconfermato la fiducia a Enrico Rossi, come esponente del Pd, perché continuasse a governare la Regione. Oggi se lo ritrovano leader di una nuova forza politica, molto critica verso il Pd. E si chiedono come farà a portare avanti il suo programma, comprese le grandi opere da decenni incompiute (dalla «Tirrenica» alla nuova pista del «Vespucci»), valendosi di una maggioranza tutta rimasta nel Pd. È vero che se lo fanno cadere, tutto il consiglio va a casa, ma se questo non avviene è la riprova che la scissione nasce da questioni e ambizioni personali e non da diversità di programmi politici. Rossi si sente un po’ come il «macchinista ferroviere» lanciato «con la stessa forza della dinamite» contro tutte le ingiustizie, celebrato da Guccini ne «La locomotiva», canzone che ha cantato ai microfoni di Radio Rock 106,6. E quindi saprà come «finì la corsa». Con «la macchina deviata lungo una linea morta».