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Incidente in Catalogna, lasciamo parlare quelle morti

In queste ore, i volti sorridenti delle studentesse morte nel terribile incidente sulla via del ritorno da Valencia a Barcelona, quasi all’alba di domenica scorsa 20 marzo, si inseguono sui siti di informazione. E sono accompagnati da poche informazioni tra le quali l’età, ribadita continuamente fino a diventare un grido di protesta a cui nessuno dà apparentemente risposta, e la parola magica Erasmus, il programma di studi all’estero che si cerca a tutti i costi di salvare, elencando i dati del suo successo in più di trent’anni di attività. È vero, come ha scritto Beppe Severgnini sul «Corriere della Sera»: i giovani devono continuare a viaggiare e un incidente automobilistico pur devastante non può fermare il desiderio di crescita e di scoperta delle nuove generazioni. Eppure, quest’ansia di ribadire che tutto deve continuare, quasi un’eco della famosa espressione the show must go on, messa a fianco dei numeri impietosi della giovane età delle vittime, dà molto a pensare circa la povertà di argomenti a nostra disposizione di fronte a tali tragici eventi.

Le domande, in effetti, non mancano e non mancheranno di bussare al nostro cuore. Possono avere un senso morti come queste? È possibile continuare a vivere e a sperare il giorno dopo tali notizie? E dov’era Dio mentre l’autista del pullman si addormentava perdendone il controllo? Può Dio esistere e permettere che accadano simili tragedie? Non c’è dubbio che eventi di questo tipo mettono radicalmente in crisi il nostro sistema di vita, nel quale i fallimenti, le difficoltà e perfino le semplici battute d’arresto non sono contemplate. Tutto è e deve essere sotto controllo, tutto deve essere a nostra disposizione. Ed è singolare notare che, quando qualcosa va storto, torna ad affacciarsi una lettura vecchia come il mondo, vale a dire l’idea del caso o della terribile fatalità, l’idea che, in qualche modo, la morte fosse scritta chissà come nel destino di quelle giovani. Quasi un totem innalzato per dirci, dopo tutto: il tuo destino è diverso, tu sei vivo, continua a vivere.

E, invece, la morte degli altri, la morte dei nostri cari, la morte giovane ci tocca molto più in profondità di quanto pensiamo. Ci ferisce, ci scandalizza. E chiede ragioni, chiede luce, chiede parole nuove. Soprattutto, chiede che ci si fermi. Chiede di essere non espulsa, ma piuttosto accolta nel nostro stesso vivere, chiede di essere simbolizzata e accettata. E non basta farlo, per esempio, con il linguaggio povero e perfino triviale delle statue di legno bruciate ogni anno a Valencia per la festa di san Giuseppe: non basta esorcizzare la morte. Occorre salvarla, darle voce. E torna in mente un episodio commovente della vita di Gesù quando, giungendo nella cittadina di Nain con i suoi amici e seguaci, egli incrocia casualmente il corteo funebre che sta accompagnando alla sepoltura il giovane figlio di una madre vedova. Due processioni, una con al centro la vita, l’altra segnata dalla morte. Potrebbero sfilare una accanto all’altra senza incontrarsi. Gesù, invece, si ferma e si rivolge alla madre: «Non piangere!». Poi si avvicina alla bara del fanciullo e dice: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Ed ecco che il morto si mette seduto e comincia a parlare, e Gesù può restituirlo a sua madre (cfr. Lc 7,11-17).

Non sappiamo cosa avrà detto quel ragazzo appena riportato in vita da Gesù. Possiamo, tuttavia, immaginare la profondità, ma anche la stupita semplicità di quelle parole di vita venute dalla morte. E fare così nostro un invito: lasciamo che la morte di queste giovani studentesse parli, che parlino le loro speranze, i loro sogni, le attese scritte nei loro occhi pieni di luce, perfino le loro debolezze e contraddizioni. La vita umana non è bella perché è perfetta e infallibile, è bella e irripetibile perché è fragile e indifesa. È vita nonostante la morte, vita perfino dentro la morte, vita più forte della morte. Ed è proprio così che possiamo sperimentare un anticipo di eternità.