Opinioni & Commenti

Intercettazioni, ci vuole un filtro al cascame perverso

di Giuseppe Anzani

Nei giorni passati i giornali hanno riempito pagine e pagine con la trascrizione delle telefonate intercettate, nella vicenda di corruzione su cui sta indagando la magistratura fiorentina. Una pioggia di parole sussurrate nel silenzio e nell’ombra, e ora messe in piazza e portate all’orecchio di tutti; con enfasi, senza omissis, persino ricostruite in spettacoli visivi e collocate nella cornice dei luoghi come su una scena. Ma le proteste per queste pubblicazioni mi sono sembrate meno roventi che in passato. Forse senza queste intercettazioni non si sarebbe giunti agli arresti, pur dopo due anni di indagini e 20mila pagine di attività investigativa. Forse proprio quelle parole – estranee di per sé ad ipotesi di reato punibile dalla legge – di chi ride nel letto pensando agli affari che il terremoto gli procurerà se si affretta, hanno un cinismo che ha provocato nella gente un disgusto collerico. Resta il problema del contenuto disomogeneo delle intercettazione che vengono rese pubbliche; vi sono colloqui e rivelazioni che interessano il processo e vi sono parole e confidenze che non c’entrano, ma che denudano vicende umane ed espongono alla gogna i soggetti. È giusto che per fare giustizia si generino delle ingiustizie?

E’  da tempo che si va cercando un punto di equilibrio: da un lato l’utilità delle intercettazioni è un dato sperimentale acquisito; dall’altro lato, è un mezzo di prova occulto e insidioso, compiuto all’insaputa del soggetto, e può coinvolgere altri soggetti (gli interlocutori occasionali) e carpirne il segreto.

Dico «segreto» perché così lo chiama la Costituzione: la regola primaria deve restare quella che la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili. E dunque le intercettazioni si disegnano come eccezione, strettamente legata alle esigenze di giustizia del processo penale; in tal guisa l’interesse pubblico accetta qualche limitazione delle libertà individuali, perché la criminalità, il terrorismo, la mafia, e in genere la condotta delittuosa sono ferite che lacerano il tessuto sociale.

Ma ci vuole equilibrio. E oggi l’equilibrio sta diventando difficile, come accade in tempi di allarme sociale. Oggi non siamo in quiete. E tuttavia non possiamo immaginare che le intercettazioni siano una modalità generica di investigazione, un «guardarsi attorno» o un gigantesco origliare, quasi gettando un’immensa rete per la pesca a strascico.

Non è così, la giustizia vuole che ci siano indizi, che ci sia necessità, che ci siano limiti di tempo, che ci siano procedure garantiste. Qualcosa andrà rimeditato, messo a punto. Possiamo utilmente confrontarci con la prassi degli altri Paesi di democrazia avanzata.

Il punto focale, alle strette, è la pubblicazione.

Anzi, direi la «pubblicità», perché gli elementi che compongono l’intercettazione, nel panorama mediatico cambiano funzione: vengono estratti, incorniciati, reinterpretati, commentati, da vari punti di vista, e diventano ingredienti non solo di gossip, ma di polemica rovente.

Qui bisognerà cambiare registro, perché lo scopo degli atti istruttori non è il circo mediatico, e la riproduzione dei verbali sulle pagine dei quotidiani, senza il filtro dell’inerenza al processo, finisce per esser cascame perverso e innaturale, strumento di una curiosità da buco della serratura.

C’è un disegno di legge sull’argomento, giunto a metà strada, che attende di completare il suo iter. E’ nato in un momento molto reattivo, e sembra voler stringere molto l’ambito di concreta praticabilità delle intercettazioni.

Peccato però sarebbe se riducendole ne perdesse o guastasse l’utilità invece che correggerne talune conseguenze sul piano della tutela della privacy nei confronti dei mezzi di informazione.

Basterebbe un buon filtro, rigoroso, senza smagliature, severo, sanzionato con efficacia.

E ciò che deve diventare pubblico, pubblico diventerà, ma nel giorno del dibattimento.