Opinioni & Commenti

La condotta fuori legge punita con una pena altrettanto fuori legge

di Giuseppe Anzani

Due anni fa per le carceri italiane fu proclamato lo stato di emergenza con decreto. La situazione era drammatica: sovraffollamento, carenze strutturali, disperazione. C’erano 44 mila posti, e 65 mila reclusi, e nell’anno precedente si erano contati 72 suicidi. La parola «emergenza» parve tacitare tutte le coscienze, nell’attesa della soluzione promessa: «assicurare la tutela della salute e la sicurezza dei detenuti, garantendo una migliore condizione di vita e la funzione rieducativa della pena», così fu scritto.

L’anno di emergenza (2010) è passato, è passato anche l’anno di proroga dell’emergenza (2011) e adesso il risultato è questo: che i detenuti sono quasi 67 mila, ammassati in spazi sufficienti a contenerne 45.700. Spazi che in certi casi sono inferiori a quelli che la normativa europea prescrive per gli animali allevati al chiuso. E immutata disperazione, ancora 66 suicidi nel 2011, e mille tentativi di suicidio sventati in extremis, oltre a una serie impressionante di atti auto lesivi gravi. E a mezzo gennaio già contiamo altri quattro morti…

Che cosa accade dunque? O piuttosto, che cosa non accade ancora, di ciò che è stato promesso? L’intero «Piano carceri» prevede di allestire nuovi posti fino a toccare quota 53mila, con forti costi. E non siamo certi del quando; siamo certi però che non basteranno, perché le cifre son cifre. E son cifre, dobbiamo pur dire, non di pena, ma di tortura. Nella Costituzione la parola carcere non c’è, c’è la parola «pena» e la regola che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Chi ha detto che questo carcere sta dentro il novero delle pene ammesse? Fra i diritti umani irrinunciabili, c’è quello di non essere torturati, cioè sottoposti «a pene o trattamenti inumani o degradanti». Ebbene, un carcere fatto così, stipato così, disperato così è una tortura.

Non sono io a dirlo, è la Corte Europea di giustizia, con una sentenza del luglio 2009 che ha condannato l’Italia, dicendo che il sovraffollamento (nella specie si trattava di sei detenuti in una cella di 16 metri quadri) è in sé tortura. Lo spazio minimo valutato dal Comitato di prevenzione della tortura è di mq. 7 per ciascun detenuto. In Italia non è così, leggiamo in numerosi interventi che lo spazio medio è inferiore ai quattro metri. Anche Sollicciano non fa eccezione, come ha riferito chi ha visitato il carcere sotto Natale, trovando in celle da 12 metri tre o persin quattro persone.

È evidente che lo scopo proclamato della pena, cioè quel «tendere alla rieducazione del condannato» come dice la Costituzione, è prenotato al fallimento. Io penso che sia venuto il tempo di ripensare più profondamente, strutturalmente, il concetto di pena e il concetto di carcere, slacciandone l’intreccio e riservando la privazione della libertà quale extrema ratio e in modo umano. Il giorno che ci passerà la vergogna di una assuefazione al dolore dei corpi tormentati, ci resterà da confessare che il traguardo emendativo è stato una speranza che abbiamo fatto fallire. È questa la sconfitta che temiamo di più, l’ipocrisia di aver punito la condotta fuori legge con una pena fuori legge (la parola è del ministro della giustizia all’epoca dell’emergenza). In perdurante emergenza infinita, d’aver fatto di una medicina un veleno, senza salvare, senza salvarci.