Opinioni & Commenti

La malattia di La Pira

DI VITTORIO CITTERICH

Era molto stanco e malato il Professor La Pira quando l’amico Giorgio Giovannoni gli propose di accompagnarlo a Livorno per salutare una nave della Croce Rossa che partiva con un carico di medicine per i profughi palestinesi nel Libano. Dubitava. «Vedi, gli disse, questa che ho addosso non è una malattia qualsiasi, è la malattia». Ci ripensò sopra. «Però quella che si cerca in Palestina non è una pace qualsiasi è la pace. Andiamo dunque a salutare quella nave».

Dai primi anni cinquanta, in Palazzo Vecchio, fra scandalo di molti e sostegno di pochi, il Sindaco di Firenze s’era dato da fare per la riconciliazione della famiglia di Abramo, ebrei, cristiani, musulmani da cui doveva derivare quella pace che non era (non è) una pace qualsiasi. Ed anche se i molti pensavano che la guerra e la violenza avrebbero prodotto finalmente qualche impresa decisiva, i pochi comprendevano che La Pira, con i suoi dialoghi scandalosi, invero stava intuendo la sola ed autentica possibilità di futuro.

Fra i pochi di allora ce n’era più d’uno assai autorevole in quel tempo. Persino Nasser che aveva sognato di gettare a mare Israele, dopo aver lungamente conversato con il Professore e il Re Maometto del Marocco, sotto una tenda di beduini, capì – dopo opportuna catechesi – che, in fin dei conti, gli conveniva ricordare che nella vocazione storica dell’Egitto c’era anche l’episodio del piccolo ebreo Mosè che era stato salvato dalle acque. È vero che lo Stato di Israele non è un bambino ignudo racchiuso in una cesta in preda alla corrente. Ma questo non cambia i rapporti di forza reali. «Perché l’Egitto – gli aveva spiegato La Pira – ha cinquemila carri armati, cinquemila aerei e venti milioni di bambini per cui la politica va commisurata alle forze che ci sono».

Anche l’austero e battagliero Ben Gurion, fondatore dello Stato di Israele, accettò sorridendo la singolare versione lapiriana. «Guardi, presidente, che Nasser è un bravo ragazzo alle prese con i molti problemi che gli pongono venti milioni di bambini. Lei lo dovrebbe invitare a prendere un caffè con qualche goccia di latte perché non siate nervosi. E poi mettetevi a discutere di come si fa la pace nella famiglia di Abramo pensando al primato dei bambini». Ben Gurion si fece serio: «Invitare Nasser a prendere un caffè? Direi di sì a chiunque altro, perché sarei sicuro che rifiuterebbe l’invito e sarebbe un bel colpo propagandistico per me. A Lei, caro professore, devo dire di no. Perché Lei sarebbe capace veramente di convincere Nasser a prendere un caffè in casa Ben Gurion. Ed è troppo presto, mi creda, è troppo presto. Ma non è un’idea sbagliata».

Aneddoti, se si vuole, fioretti di La Pira che mezzo secolo dopo conservano un intatto e buon sapore. Mi ritornano in mente mentre anche i potenti della terra di questo terzo millennio appena iniziato si sono convinti che la pace in Palestina, con il giusto riconoscimento delle ragioni di tutti, non è una pace qualsiasi ma la «pace del terzo millennio». Ne sono convinti ma non riescono a districarsi dalla catena delle violenze e delle prepotenze. Pensiamo ai Bush, padre e figlio. Il padre si gettò nell’avventura della guerra del Golfo, dicendo che sarebbe stata la soluzione finale prima della pace arabo-israeliana sospinta dagli americani. Qualcosa è andato avanti, fra Camp David e Oslo, sino al punto che l’ebreo Rabin è stato purtroppo ucciso dall’estremismo ebraico e l’interlocutore palestinese Arafat, protagonista di un’autonomia privata di dignità statuale, è rimasto isolato di fronte alle spinte dell’estremismo islamico.

Bush figlio, dopo la sciagurata impresa terroristica subita dagli Stati Uniti, per spezzare il fronte fondamentalista ed ottenere la più larga convergenza internazionale per la risposta bellica in Afganistan, parlò esplicitamente della necessità di uno Stato arabo-palestinese la cui formazione doveva essere accompagnata, nientemeno, che dal varo di un nuovo piano Marshall. Parole al vento, sino a questo punto, travolte implacabilmente da una catena di terrorismi suicidi e di cieche ritorsioni da legge del taglione. Nell’attesa che, alla fine, il palestinese Arafat faccia la fine dell’israeliano Rabin nella sostanziale indifferenza delle istituzioni internazionali e dei padronati che ne controllano l’azione.

Non è ancora entrata negli animi la convinzione che la guerra è pur sempre un’avventura senza ritorno da cui non deriva né può derivare alcuna «soluzione finale». Siamo ancora in attesa dei cuori nuovi che possono accogliere la pace dono di Dio. Diceva il grande filosofo ebreo Martin Buber che, sin dagli anni cinquanta, frequentava i colloqui di Firenze, che per capire la presenza storica contemporanea di Israele si deve tenere presente il rapporto fra il Libro, il popolo e la terra. Qualcosa di inscindibile per cui La Pira diceva, a suo modo, che Israele non può essere gettato in mare, come pur sostenevano in quegli anni i sinistresi superficiali d’ogni sponda. «Levare Israele? Israele è illevabile».

Ebbene proprio Martin Buber sosteneva che «se Israele vuole meno di ciò che si attende sotto il suo nome fallirà anche le mete minori» perché la stessa presa di possesso della terra biblica si presenta, nei secoli, ogni volta più difficile «ed è ancora più difficile se si deve fare i conti con la coesistenza di un altro popolo sulla stessa terra, un popolo affine per origine e linguaggio, ma prevalentemente estraneo per tradizioni, strutture e tendenze. Eppure – concludeva Martin Buber – questa realtà di fatto non può essere eliminata dal compito affidato al popolo di Israele».

Prima dell’assassinio di Rabin, assassinio materiale ma anche, in buona misura, assassinio morale della sua politica, la profezia di Buber sembrava in via di realizzazione. Anche se piccole ma significative forze israeliane ancora si ispirano al suo insegnamento egli sembra, oggi, un profeta che grida nel deserto. Del resto, diceva Buber, le situazioni storiche, quando si perdono le buone occasioni, si intrecciano in complicazioni più gravi per cui occorre uno slancio sempre più forte per superarle. «Così appunto è il cammino della vita, duro eppure non privo della grazia divina. Non diversamente sembra accadere per Israele» – concludeva nel 1950 –. Così appunto, più di mezzo secolo dopo, ci sembra il cammino della storia, duro eppure non privo della grazia divina.

Per cui non è inutile seguire Giovanni Paolo II che con insistenza ci invita a pregare per la pace, dono di Dio, senza dimenticare, peraltro, che la guerra rimane un’avventura senza ritorno.