Opinioni & Commenti

Non è in gioco la libertà di cura, ma la nostra vita alla fine dei nostri giorni

di Domenico Delle Foglie

C’è una domanda inevasa nel dibattito pubblico che accompagna il tentativo di legiferare sul fine vita e che pretende una risposta senza ambiguità: il cuore di questa legge sarà la libertà individuale o la tutela della vita? Da questa risposta dipenderanno non solo la direzione che prenderà la legge e con essa le sue immense ricadute sul quotidiano, ma anche la costruzione del senso comune, ovvero quel complesso di significati che il popolo, cioè tutti noi, attribuiamo a una particolare disciplina.

Ora possiamo affermare, soprattutto dopo che una giovane donna di nome Eluana è stata fatta morire per fame e per sete in applicazione di un decreto di un Tribunale della Repubblica, che la vera partita in gioco non è la libertà individuale (anche nella sua veste legittima della libertà di cura), quanto la tutela di una singola vita. Non la vita astratta, ma quella di una persona in carne ed ossa, alla quale, ricostruendone con approssimazione (se non fantasiosamente) le volontà,  si può applicare la decisione di sottrarla a questa esistenza terrena proprio quando essa si trova nella condizione di massima fragilità. Dev’essere dunque questa particolarissima persona fragile a rimanere dinanzi ai nostri occhi, altrimenti saremo ben presto sommersi dalla retorica della libertà individuale e assoluta che, a parere del partito «della libertà innanzitutto», deve necessariamente prevalere anche sulla scienza e coscienza del medico, chiamato solo a ratificare le volontà del paziente. Il medico viene così emarginato dal cammino di cura, in nome dell’autodeterminazione assoluta che nega l’essenza di quella comune antropologia che ci vede vivere sempre in relazione. E che, dinanzi alla fine del percorso terreno, ci vorrebbe addirittura svincolati dalla relazione, sia essa con i familiari, con il medico e con la comunità. Così da poter affermare, in un trionfo del nichilismo, che moriamo da soli. Quasi che non avessimo, tutti noi, semplici uomini e donne, l’umanissima aspirazione a poter chiudere questa nostra avventura terrena incrociando lo sguardo di tutti quelli che abbiamo amato.

Ora è questa la grande posta in gioco: non la libertà di cura che è già assicurata dentro il rapporto medico-paziente, che noi sappiamo essere fra i più umani e tale vogliamo che resti, bensì la tutela della nostra vita alla fine dei nostri giorni. Il che vuol dire alcune cose precise: la terapia del dolore, le cure palliative, e anche la possibilità di affermare e veder rispettate alcune precise volontà chiare, circostanziate, certe, recenti e inequivocabili. Mai però con esito eutanasico. Volontà che perciò non possono prevedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione che sono per noi, come per tutti gli esseri umani, semplici sostegni vitali. E non terapie mediche.

Una domanda finale: tutto questo è davvero chiaro, anche alle coscienze dei cattolici? Dubitarne è lecito, visto il bombardamento mediatico che privilegia l’elogio indiscriminato dell’assoluta libertà individuale, fuori dal vincolo della relazione umana. Ora è pensabile che dinanzi a cotanta distorsione i cattolici possano restare afoni? Impossibile.