Opinioni & Commenti

Per dare nuove possibilità alla dimensione religiosa

di Adriano Fabris

Che spazio c’è, oggi, per la fede? Che spazio c’è per una scelta religiosa nella realtà in cui viviamo? Anzi, più radicalmente ancora: c’è ancora posto, nel nostro mondo, per una fede di tipo religioso? Non si tratta di domande dettate dal pessimismo. Sono invece questioni che nascono di fronte a qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Si parla di secolarizzazione ormai compiuta. Si scrivono libri – come quello, bello, di Armando Matteo – sul fatto che la prossima generazione, la generazione dei nostri figli, sarà per lo più fatta da increduli, almeno in Occidente. E se fino a qualche anno fa si parlava di come vivere appieno la propria fede, oggi ci si chiede che fine ha fatto questo atteggiamento.

Certo: la situazione è anche più complessa di quanto ho appena detto. Da una parte convivono, nella nostra società, ateismi sempre più aggressivi, agnosticismi più o meno tolleranti, posizioni largamente indifferenti nei confronti di ogni possibilità religiosa. E dall’altra incontriamo un proliferare di religioni, come se ci trovassimo in un supermercato della fede, una semplificazione delle credenze, talvolta ridotte a una spiritualità usa e getta, un irrigidimento fondamentalistico, crescente e aggressivo. Anche in campo cattolico vi sono segnali che vanno in controtendenza rispetto al quadro di secolarizzazione prima delineato. Il riproporsi d’interrogativi sulle cose ultime, l’interesse per le questioni di fede condiviso da molti ragazzi – i quali, magari, affollano numerosi le Giornate Mondiali della Gioventù –, l’idea di un’appartenenza religiosa vissuta attraverso i movimenti piuttosto che nelle parrocchie: ecco alcuni esempi che saltano subito agli occhi. Ma anche queste esperienze possono venir fraintese: le questioni fondamentali si trasformano allora in ricette di rassicurazione psicologica, i grandi raduni sono vissuti in maniera esteriore, i movimenti diventano lobbies chiuse al loro interno.

Qual è il denominatore comune di una situazione così variegata? Che cosa fa sì che la fede veda eroso il proprio spazio o debba subire le trasformazioni cui ho accennato? Potremmo dire che oggi, in Occidente, non è più tempo di religione perché ciò di cui abbiamo bisogno ci viene offerto dall’approccio scientifico e dai suoi sviluppi tecnologici. Possiamo vivere, e vivere bene, come se non ci fosse alcun Dio proprio perché molto, riguardo al nostro mondo, è già stato spiegato e molto può essere posto sotto il nostro controllo. Ciò induce a pensare che tutto, prima o poi, potrà essere spiegato e controllato. E dunque non c’è bisogno di ricorrere a un’istanza superiore: l’uomo è la misura di tutte le cose. C’è un errore in questa mentalità. S’annuncia qui un’idea sbagliata dell’essere umano. Noi non siamo soggetti isolati pronti alla conquista del mondo. Noi siamo quello che siamo perché ci troviamo coinvolti in una miriade di relazioni: con i nostri simili, con la natura, con ciò che va al di là di noi stessi. E in queste relazioni noi non dettiamo legge, non spieghiamo il mondo per poi controllarlo. In esse troviamo senso, orientamento, comprensione del nostro ruolo.

È questa idea di noi stessi che oggi rischiamo di perdere e che, una volta perduta, produce l’annullamento dello spazio religioso. Ma si tratta, dicevo, di un’idea sbagliata. L’immagine dell’uomo isolato, capace d’imporre al mondo i suoi voleri, ha già dimostrato di essere disastrosa. La prospettiva di un controllo totale è un’utopia. Anche se si spiega tutto, infatti, non si ottiene il senso delle cose. Bisogna dunque cambiare mentalità. Bisogna riscoprire le relazioni che ci coinvolgono. Se lo facciamo, non solo guadagnamo un corretto rapporto con il mondo e con noi stessi, ma diamo nuove possibilità alla dimensione religiosa. Perché essa è segno del legame in atto fra umano e divino. Lo dice la parola stessa «religione»: che rimanda nella sua etimologia a un collegamento, a un religamen, che per il cristiano si realizza nel Cristo. Vale la pena di ripartire da qui: non solo per rispondere concretamente alle domande poste all’inizio, ma soprattutto per vivere in maniera meno unilaterale, credenti e non credenti, la nostra vita.